Mamme, prendetevi cura di voi!

Mi capita spesso di incontrare MAMME molto stanche e stressate.
Mi parlano dei salti mortali che fanno per gestire figli, casa e lavoro.

Se sono separate o divorziate (e non hanno aiuti) è ancora peggio.
Se hanno un partner “inesistente”, che non collabora, che non fa la sua parte… peggio che peggio.

E quando chiedo loro: “COME TI PRENDI CURA DI TE?”,
mi rispondono: “In che senso?”.

E allora chiarisco che non intendo l’igiene personale, ma ciò che fanno per se stesse e per puro piacere, come leggere una rivista, guardare in pace il programma tv preferito, bere una tisana in santa pace, fare una passeggiata…
Qualcuna, allora, mi dice: “Vado dal parrucchiere” oppure “Vado dall’estetista”.

Chiedo: “QUANTE VOLTE alla settimana/al mese” e la risposta spesso è: “Una volta al mese”.
Siete d’accordo che è davvero poco? Non possiamo prenderci cura di noi solo un paio d’ore al mese.

Prendersi cura di sé significa volersi bene.
Un po’ come dire: “Esisto anch’io”.

I figli sono una scelta, è vero, e i loro bisogni vengono sempre prima, tuttavia è importante tenere per sé alcuni momenti in cui mettersi al centro, anche solo per mezz’ora.
Il fatto è che questi momenti vanno programmati, altrimenti ci sarà sempre qualcosa più importante, più urgente da fare.

E la prima cosa da chiarire con se stesse è: “Che cosa mi fa stare davvero bene e mi regala un vero momento di relax e/o di serenità?”.

Vi sembra una domanda sciocca, scontata?
Magari starete pensando: “Figurati se non so che cosa mi fa stare bene! Un bel viaggio alle Maldive, no?!”.
Non è di “sogni e desideri” che stiamo parlando, ma di quotidianità: di cose che possiamo fare, che dipendono da noi… da noi e basta!

Perciò, definire che cosa possiamo fare per sentirci bene è il primo passo.
Scriverlo ci permette di non dimenticarlo nel tempo.

E il secondo passo?
Come accennavo prima, il passo successivo sta nel programmare (e rispettare) piccoli momenti dedicati a noi.

Non serve fare mille programmi, ma scegliere due/tre cose della nostra lista (intitolata “La cura di me”) e  spuntarle nell’arco di una settimana.

Anche fare una lunga doccia, ascoltando la musica che amiamo e lasciando che l’acqua calda ci rilassi i muscoli, è “cura di sé”.
Perciò non ditemi che non c’è tempo: non boicottatevi da sole!

Raccontatemi, piuttosto, in quanti modi avete deciso di prendervi cura di voi, così da essere di ispirazione a tutte le altre.
Vi aspetto!

Troppi problemi e poca energia? Ecco un buon modo per uscirne!

Ti è mai capitato nella vita di sentirti stanca, svuotata e di aver pensato: “Vorrei solo scomparire!”? Una frase che sottintende il desiderio di trovare un po’ di silenzio, di pace: smetterla di dar retta agli altri, di preoccuparti e occuparti di mille problemi tutti insieme.

Magari hai esclamato: “Sono alla frutta!”… quando in realtà sei al “dolce”, visto come ti senti.

Sono periodi in cui, se ti chiedono cosa vuoi, non lo sai… perché non hai la forza né la voglia di pensare alla risposta.
Se pensi “Cosa voglio?”, la testa inizia a girare, i pensieri si affollano nella mente e non trovi le parole per spiegare a chi ami il groviglio che c’è.

Alla domanda – “Come posso aiutarti?” – ti senti peggio, perché non lo sai o non hai voglia di suggerire la risposta.
Vorresti soltanto che ci pensasse qualcun altro a farti stare bene: che risolvesse i tuoi problemi, che si prendesse cura di te, facendoti tornare il sorriso.

Senti di aver bisogno di aiuto, da sola non ce la fai, perché ti mancano le energie: sei scarica!
E i problemi si risolvono quando si è lucidi, riposati e pieni di energia.

“Oddio, Coach! Allora sono depressa?”.

Non è detto.
Magari sei “semplicemente” sfinita e quindi tutto diventa estremamente pesante.
Magari si sono sommati vecchi e nuovi problemi, rendendoti le giornate soffocanti.
Magari hai accumulato stress e tensioni, senza riuscire a scaricarle.
Magari è molto tempo che non ti dedichi una pausa per fare ciò che ami.

“Quindi cosa devo fare?”.

PRENDITI CURA DI TE!

Sì, certo, Coach! E tutti i miei problemi chi li risolve?”.

Lo farai tu, quando ti sarai ricaricata.
Significa che devi recuperare sonno, energie, lucidità, motivazione. Solo così tornerai a vedere il sereno.

“Già, Coach, ma se non riesco a decidere nemmeno cosa voglio fare… Come faccio a occuparmi di me?”.

Innanzitutto, non aspettarti di ricevere l’aiuto che ti serve (a meno che tu non decida di rivolgerti ad un professionista): i familiari e gli amici sono fantastici, ma mancano degli strumenti necessari per darti concretamente una mano.

Fai così: dividi un foglio di carta in 3 colonne.
Sulla prima colonna scrivi (con la penna) tutto ciò che ti occupa la mente (cioè i problemi che ti tolgono serenità).
Sulla seconda colonna, invece, scrivi che cosa puoi fare concretamente per risolverli.
Nella terza colonna scrivi quando te ne occuperai e, in una scala da 0 a 10, quanto pensi di riuscire a spuntare quella voce in elenco.
Se la tua valutazione è 5, significa che la soluzione che hai trovato non va bene per te, perciò trova un’altra soluzione.

Poi numera il tuo elenco di “problemi” (prima colonna) e affrontalo sulla base delle priorità (dal problema più pesante a quello meno) oppure in base alle tue energie (se ne hai poche, parti dal problema più semplice).

Il passo più difficile è uscire dalla “palude”!
Decidere di muoversi, anche a piccoli passi, senza la pretesa di risolvere tutto e subito.
Datti un tempo!

Se poi hai la possibilità di rivolgerti ad un Coach, meglio!
Ti affiancherà nella costruzione degli step necessari a uscire dal tuo stallo, ti sorreggerà quando sarai stanca e ti ascolterà quando avrai bisogno di “scaricare” i tuoi pensieri e dare forma a quel groviglio.
Un prezioso alleato che ti permetterà di risolvere più velocemente i tuoi problemi per tornare a guardare la vita a colori.

Scopri se i tuoi figli sono destinati a essere felici!

La scorsa settimana mi è capitato di ascoltare una breve conversazione tra due quattordicenni.

Una diceva all’altra: “Tu come ti immagini tra vent’anni?”
e poi, senza lasciarla rispondere, con tono entusiasta e occhi felici, continuava: “Io mi vedo sposata, con due figli, una bella casa… E tu?”.

La sua amica, con grande esitazione e aria perplessa: “Mah… Non so! Non riesco a immaginarmi!”.

Secondo voi, quale delle due ha più probabilità di essere felice?

La prima ragazza pare avere idee chiare e progetti. La seconda brancola nel buio.
In realtà, la prima ragazza “immagina” (quindi desidera) cose che sono fuori dal suo totale controllo.
Sposarsi significa trovare l’uomo giusto e questo non dipende esclusivamente da noi.
Bisogna avere anche un pizzico di fortuna, oltre che essere ricambiate.
Avere figli non è scontato, nemmeno quando i partner sono sani.
Ci sono coppie che scoprono di non riuscire ad averne solo dopo le nozze e la sofferenza è enorme.
Avere una bella casa dipende dalla disponibilità economica, quindi dalle entrate della coppia, perciò dalla posizione lavorativa di ciascuno.

Questi “sogni/desideri” sono molto pericolosi, perché si concentrano su ciò che non dipende da noi.

Sarebbe stato meglio se la ragazza avesse detto: “Io mi immagino laureata…”, perché l’obiettivo della laurea dipende da lei soltanto, dalla sua determinazione.

Nei percorsi di sviluppo delle Life Skills insegno ai ragazzi a porsi obiettivi realizzabili, sfidanti, gratificanti, che permettano loro di usare tutte le potenzialità che hanno.
Questo comporta che gli obiettivi vengano espressi correttamente e che dipendano al 100% da loro.

Più la realizzazione dell’obiettivo coinvolge altri e meno possibilità ci sarà di arrivarci.
Questo dobbiamo insegnare ai ragazzi!

Certo è meraviglioso lasciarli vivere dentro un film rosa, ma quando si sveglieranno… cosa accadrà?

Meglio guidarli a immaginare un futuro che dipenda dalle loro capacità, punti di forza, determinazione, volontà, motivazione, passione.

Qui non si tratta di togliere a un’adolescente il sogno di un matrimonio e dei figli, ma di indirizzare meglio i suoi obiettivi.

E sappiamo bene che il primo passo per trovare l’amore è quello di realizzare in primis se stessi. Non il “bisogno” dell’altro, ma il piacere di renderci conto che ci completa.
Non una vita che dipende dall’altro (dal suo umore, dal suo denaro, dalle sue attenzioni), ma che si arricchisce grazie all’altro.

Comprendere questo significa indirizzare i ragazzi a essere felici.
E questo è il compito più importante che abbiamo, in quanto adulti ed educatori.

Parliamo di “reciprocità”, non di aspettative!

Qualche giorno fa, ascoltando un intervento di Paolo Crepet sull’educazione dei figli, ho fatto caso che usava il termine “reciprocità” come faccio anch’io, da anni, parlando coi genitori.

In poche parole, diceva che – se un figlio adolescente non vuole impegnarsi in nulla – il genitore non deve fare nulla, cioè niente paghetta né playstation, né cellulare… Niente.

Il concetto espresso era “se tu non fai niente per te stesso, io non faccio nulla per te”.
Interessante, vero?
A me è piaciuta la precisazione “… non fai nulla PER TE”, perché significa che il “nulla” del genitore è un atto di amore disinteressato e non una punizione o un ricatto.

Se un figlio non si dà daffare, il genitore NON deve  continuare a “dare” (soldi, regali…) né “fare” ciò che tocca al figlio.

Dovrebbe essere così anche nella vita quotidiana.

Al lavoro, perché dovremmo svolgere quello che è compito di altri?
Se un collega non fa niente di ciò che deve, perché dovremmo aiutarlo?
Se una persona è sgarbata, maleducata con noi, perché dovremmo continuare a essere gentili e disponibili con lei?
Non è un invito all’egoismo né alla maleducazione.
Si tratta di “reciprocità”.

Continuando a concedere il meglio a chi non fa altrettanto con noi, pensiamo di fargli del bene?
Di aiutarlo a migliorare? Perché se non pretendiamo la “reciprocità”, l’altro penserà di essere al centro dell’universo e che tutto gli sia dovuto, anche se non lo merita.

“Reciprocità” invece significa venirsi incontro, dialogare, comprendersi, rispettarsi e volersi bene.
Le relazioni umane “sane” si fondano sulla “reciprocità”.

Perciò, se l’altra persona NON risponde alle nostre domande, ci regala silenzi, assenze prolungate, dubbi, attese infinite… vuol dire che siamo soli: l’altro non c’è. Non è un rapporto il nostro.

Se siamo sempre noi a “dare” senza mai “ricevere”… non è un rapporto salutare.
Se l’altro non collabora e facciamo tutto noi… che relazione è?

Quindi, valutiamo bene se i nostri rapporti di amicizia, familiari, di lavoro hanno “reciprocità”: guardiamoli senza filtri né giustificazioni.

Chiediamoci: “Ricevo dall’altro ciò che io do?”,
“Mi sta bene dare e basta?”, “Per quanto ancora lo accetterò?”.

E poi decidiamo se e come cambiare il nostro atteggiamento per vivere più sereni e in pace con noi stessi.

Ecco come affrontare i momenti difficili!

È trascorso più di un anno dall’inizio della pandemia e il peso di questa situazione si fa sentire anche tra i più resilienti.
Come superare quindi l’umore nero, la stanchezza psicologica e lo scoraggiamento?

Ecco 7 semplici passi per aiutarci ogni giorno a trovare un po’ di luce:

  1. Per prima cosa dobbiamo evitare di impuntarci su “come dovrebbero andare le cose”: se la realtà è questa, inutile continuare a confrontarla con le nostre aspettative.
    “Accettare la realtà” è fondamentale.
    Più cerchiamo di opporci e più sarà difficile trovare una soluzione.
  2. Non facciamo le vittime, perché piangerci addosso ci rende immobili.
    Dirci che “niente cambierà” ci toglie la responsabilità di agire e di risolvere i problemi.
  3. Guardiamo “dentro di noi” e non fuori.
    Concentriamoci su quello che possiamo cambiare, senza pretendere che cambino gli altri o il contesto in cui viviamo.
    Chiediamoci: “Cosa posso fare io per migliorare la mia situazione?”.
  4. Focalizziamoci su ciò che abbiamo e non su quello che ci manca.
    Siamo vivi? Sani? Amati? Allora non ci manca nulla per affrontare le difficoltà.
  5. Ripetiamoci che questo brutto momento “non durerà per sempre”.
    Nulla è eterno.
    Perciò dedichiamoci a qualcosa che ci fa stare bene e ci permette di ritrovare un po’ di fiducia nel futuro.
  6. Cambiamo prospettiva.
    Come vogliamo vedere le difficoltà?
    Come ostacoli, prove da superare o sfide da vincere? Sta a noi scegliere.
  7. Rendiamoci conto che “molto è possibile” (se dipende da noi, dal nostro atteggiamento, da come reagiamo, da come parliamo a noi stessi) e che spesso le difficoltà ci spingono a scoprire il meglio di noi.

È Pasqua: cambia il tuo punto di vista!

Siamo prossimi alla Pasqua e non avrei mai immaginato di viverla di nuovo blindata in casa per la pandemia. E voi?
Vorrei dirvi che presto finirà, trovare frasi di incoraggiamento e ottimismo, ma come voi anch’io sono stanca, perché è un anno che rispetto diligentemente le regole ed esco solo per lavorare.
Come molti di voi, niente più socialità, trekking in montagna, passeggiate al lago o al mare.

Col passare dei mesi sono venute meno la pazienza, la tolleranza, la comprensione, la speranza. E sono cresciute la stanchezza, l’esasperazione, la frustrazione, l’ansia.

Sembra proprio che tutto vada male… E questo malessere è così diffuso che i prodotti maggiormente pubblicizzati in TV sono proprio quelli contro l’insonnia, l’ansia, l’irritabilità, il mal di stomaco e di testa.
Zero energia, zero positività. Che disastro!

Quindi cosa fare?
Ripiegarci su noi stessi? Abbandonarci all’apatia? Arrenderci alla negatività?

Per me è inaccettabile!
Non voglio abbattermi né violare le regole, perciò l’unica cosa da fare è “cambiare punto di vista”.

Al posto di ascoltare di continuo il mio disagio, che in alcuni momenti è assordante, ho scelto di “dargli un piccolo spazio” nell’arco della giornata.
Per il resto, al posto di elencare tutto ciò che mi manca (nel lavoro, vita sociale, salute, famiglia, ecc.), ho scritto una lista di tutto ciò che posso ancora fare, nonostante le restrizioni e, per aiutare le persone che amo, ho inventato “sfide” sportive (da condividere grazie ad un’app) che alimentano la motivazione a stare nel verde, organizzare al meglio la giornata, avere uno scopo, prendersi cura di sé.

Un amico che purtroppo è stato colpito da una malattia degenerativa, che lo paralizzerà per sempre, mi ha detto: “Ogni giorno penso a quel poco che posso ancora fare, piuttosto che a tutto quello che sto perdendo”.

E per me è un grande esempio, perché se nella nostra vita possiamo ancora muoverci, non importa andare in montagna o al mare.
Possiamo anche camminare al parco vicino a casa.

Questo è il concetto: usare il pensiero creativo per trovare soluzioni che ci facciano stare bene, pur nella difficoltà.

E allora prendiamo esempio anche dai ragazzi, che hanno organizzato party virtuali, aperitivi a distanza, incontri all’aria aperta…

Siamo noi a scegliere come reagire.
Perciò domandiamoci: “Che cosa vogliamo?”.
Crogiolarci nelle nostre emozioni negative o reagire e trovare nuovi modi per coltivare un po’ di serenità?

Quando essere assertivi non porta al risultato… Ecco cosa fare!

Spiego sempre ai miei coachee (clienti) quanto sia importante sviluppare una buona assertività, per saper dire di no e far valere i propri diritti e bisogni.
Essere capaci di farlo, cambia la vita e permette di avere maggiore autostima.
E non c’è un limite di età per diventare assertivi: i fortunati lo imparano da ragazzi, mentre gli over 40 ci arrivano con qualche sforzo in più.
Ma, per esperienza, posso dire che è un obiettivo raggiungibile, se ben guidati a farlo.

Quindi… se impariamo a essere assertivi abbiamo risolto tutti i nostri problemi… O no?

Antonella ne era convinta e ha faticato parecchio per diventarlo.
Poi, un giorno, nell’appartamento sopra il suo si è trasferita una giovane e chiassosa coppia con un bambino piccolo e un cane di taglia media. La sua tranquillità e serenità sono scomparse, perché la famigliola era indifferente alle più elementari norme di convivenza civile e quindi non c’era più pace.

Cosa fare, se non usare tutta l’assertività di cui era capace?

Mi spiegava di averle provate tutte: prima il dialogo diplomatico, poi una esplicita richiesta di “attenzione e comprensione” nei suoi confronti, per arrivare a una lettera attraverso l’amministratore, ecc.
Risultato? Nessuno!
Se non uno stato di esasperazione, con sentimenti che variavano dalla rabbia alla frustrazione.

Cosa ci insegna questo?

Che l’assertività non porta ad alcun risultato se si scontra con il menefreghismo dell’altro.
Possiamo essere capaci di far presente il disagio che ci procura l’altra persona col suo comportamento irrispettoso ed egoista, ma se l’altro è assolutamente sordo e indifferente alle nostre richieste, non risolveremo nulla.

Questo non vuol dire aver sprecato tempo ed energie.
Chi è assertivo ha indubbiamente una marcia in più, perché “combatte” e non subisce in silenzio.
Non si comporta da vittima, ma agisce per ottenere ciò che desidera.

Esiste, tuttavia, un limite: l’altra persona (con le scelte che fa, i comportamenti che assume, ecc).

E allora cosa possiamo fare?
Certamente non passare il tempo a lamentarci, sebbene a ragione.

Meglio concentrarci sul trovare soluzioni che dipendano “solo” da noi, che portino al nostro benessere, qualunque esso sia.

Decisioni da prendere con lucidità e rispetto del nostro modo di essere: dal mettersi i tappi nelle orecchie per sopportare i rumori molesti, alla scelta di rivolgersi ad un avvocato, fino alla decisione drastica di cambiare casa.

Le scelte sono soggettive, ma ci permettono di non subire.
E questo, chi è assertivo, lo sa!

Impara a chiedere aiuto, se ti vuoi bene.

Nadia è una bella cinquantenne, cresciuta in una famiglia vecchio stampo, con due genitori che hanno cresciuto i figli senza aiuti e un padre che, nel lavoro, si è fatto tutto da sé.
Il mantra che lei ha ascoltato sin da piccola è “Chi fa da sé, fa per tre” e infatti non ha mai visto i suoi genitori chiedere aiuto a nessuno. E le rare volte in cui l’hanno fatto, si sono sdebitati immediatamente con un dono.

Questo l’ha spinta a fare altrettanto, con grandi sacrifici e molte frustrazioni, caricandosi sempre più pesi e rifiutando l’aiuto di chi glielo offriva, col risultato di apparire orgogliosa, forse anche un po’ superba.
Tutti la vedono indipendente, autonoma, forte… Così deducono che non abbia né gradisca l’aiuto di nessuno e lei ne soffre.

Ci sono tante persone come Nadia, “bloccate” nel chiedere o incerte sul farlo per non sembrare invadenti o inopportune.

La verità, però, è che tutti abbiamo bisogno di sostegno, che sia concreto o psicologico.

Saper chiedere ci rende “umani” agli occhi degli altri. Non farlo, ci fa apparire come supereroi (anche se non lo siamo) e nessuno ama avere a che fare con un supereroe, perché fa sentire inadeguati.

Ma come “chiedere”?

Ovviamente, prima di farlo, valutare la possibilità di fare da sé, se non altro per evitare di approfittarci dell’altro.

Importante è aver chiaro ciò di cui abbiamo bisogno ed esprimerlo con semplicità: scegliere il momento adatto e le parole giuste.
Fare la nostra richiesta con tono spontaneo e frasi sincere.

Non dobbiamo temere di essere giudicati o rifiutati.

Lo scopo è chiedere aiuto, non essere certi che ci verrà accordato.

Perciò non dobbiamo nascondere di essere in difficoltà: non si tratta di fare le vittime, di piangersi addosso, ma di chiedere consiglio o aiuto in qualcosa che non siamo in grado di fare da soli.

Una volta ricevuto l’aiuto, poi, non sdebitiamoci subito, come a dire “Ecco, non ti devo più nulla! Con te ho chiuso!”, ma

ringraziamo con qualcosa di simbolico: un fiore, un bel biglietto di gratitudine, parole di ringraziamento sincere.

Tanto è scontato che, se siamo persone che chiedono poco, saremo grate e disponibili a ricambiare quando l’altro avrà bisogno.

La primavera è alle porte, ma i ragazzi stanno “sfiorendo”!

La primavera è rinascita, cambiamento. E per i ragazzi è da sempre momento di gioia, di nuovi amori, di conto alla rovescia. Sono questi i mesi dello sprint finale per evitare i debiti, ma anche i fine settimana da trascorrere al parco con gli amici. Momenti fondamentali per un adolescente che ha bisogno di risultati, ma anche di confronto e condivisione con gli altri.

Oggi, però, i ragazzi osservano la primavera dalla finestra e, se a novembre erano arrabbiati, a dicembre in crisi, ora sono stanchi e demotivati, esasperati e depressi, perché la percezione che hanno è che “non cambi nulla”.

E non possiamo dargli torto.

Come Teen Coach me ne rendo conto, perché li seguo da vicino.
I mesi scorsi mi chiedevano aiuto perché la concentrazione scarseggiava durante le lezioni a distanza e  i voti si abbassavano. Mancava loro il rapporto diretto coi compagni e con i docenti, ma almeno avevano la speranza di veder cambiare le cose.

Ora non più.

Il breve ritorno alla didattica in presenza, per certi versi, ha solo peggiorato la situazione, perché i ragazzi si sono trovati a sostenere verifiche e interrogazioni quotidiane svolte in tempi stretti e con zero tolleranza da parte dei docenti. Nulla a che vedere con la “scuola” in presenza a cui erano abituati.

I liceali che seguo, infatti, mi raccontano di interrogazioni fatte a cronometro (dieci minuti e stop), di settimana in presenza con più interrogazioni giornaliere… Gli universitari mi parlano di esami scritti che nemmeno possono rivedere, una volta corretti.
Sbagliare e non sapere dove né come rimediare… Davvero destabilizzante per chi ci tiene a migliorare.

Già, perché gli adolescenti non sono tutti svogliati, votati all’happy hour: ce ne sono tanti che considerano la scuola/università importante e che si impegnano per ottenere buoni risultati.

Ora però sono sfiniti.
Io li vedo, ascolto i loro vissuti e mi rendo conto che stanno pagando un prezzo altissimo a causa della pandemia.

Studiano, si impegnano, seguono le lezioni, ma i mesi tutti uguali ormai sono tanti e “nulla cambia” per loro. Hanno esami e verifiche concentrati in poco tempo, così l’ansia da prestazione aumenta a dismisura. Ed è facile poi dire “basta che studi”. Non è così. Non basta. Non più.

Spesso hanno a che fare con docenti a loro volta pressati, inquieti, preoccupati e spaventati all’idea del contagio. Docenti che si sono dovuti inventare una nuova didattica, piegare a protocolli sempre diversi, senza aver più un confronto diretto con gli studenti.
E così molti hanno perso di vista l’aspetto più importante dell’essere docente: l’umanità, fatta di comprensione e tolleranza per la fatica condivisa.

Quale soluzione trovare?

Non c’è un “vaccino” uguale per tutti.
Tuttavia dobbiamo far sì che i giovani non si abbattano del tutto.

Dobbiamo coltivare in loro la speranza.
Non quella per cui “restare seduti” ad attendere che le cose cambino, che “i grandi” facciano qualcosa per loro.
Speranza nel senso di fiducia e impegno in direzione di un miglioramento, che certamente avverrà (anche se non sappiamo quando).

Gli adolescenti vedono tutto o bianco o nero. In questo momento “solo nero”.

Sta a noi, quindi, far loro cogliere le sfumature, aiutarli a dare un senso a questa attesa, fatta però di “azione” verso uno scopo.
Sta a noi sostenerli, affiancarli, motivarli a non mollare… Perché stavolta il peso da portare è troppo pesante e da soli non ce la fanno.

Gli adolescenti… Che bella storia!

Le gioie vanno condivise… e quando parlo di “ragazzi” per me è sempre una bella storia.

Ho conosciuto Matteo quasi due anni fa. Un ragazzone dagli occhi buoni e dai modi educati. Certamente più maturo rispetto alla sua età, innamorato di una ragazza che lui sente di dover proteggere perché “ancora ingenua”. Un vero amico: disponibile, sincero, molto empatico e ben voluto.
Il classico adolescente, però, che nasconde sotto un’armatura il suo vero e meraviglioso “io”: la sensibilità nascosta sotto un’espressione seria, talvolta dura. La sua coerenza e integrità che gli procurano discussioni e arrabbiature.

Quando ci siamo parlati la prima volta, mi ha detto una frase che non scorderò mai: “Eh, magari in un’altra vita!”. Non aveva capito di poter avere tutte le vite che desidera.

Mi confessava: “Ho mollato l’università, perché evidentemente non so studiare”.
E non si rendeva conto di essere più intelligente di tanti altri.

Ammetteva con dispiacere: “Ho fatto molti sport, ma non li ho portati a termine”, senza capire di aver fatto mille esperienze, che nessuno gli porterà mai via.

Non vedeva le sue qualità e si dipingeva con le parole degli altri: “Interessi? Mmm… non ne ho”.
E invece…

Il suo obiettivo l’aveva chiaro in testa: “Voglio conoscermi, capire chi sono e cosa posso fare”.

E la sua mamma è stata davvero lungimirante, visto che mi ha contattata lei, e ha fatto a suo figlio questo enorme regalo.

Matteo OGGI ha uno sguardo deciso, che trasmette vibrazioni positive:
sta terminando i due anni della scuola di specializzazione post-diploma che ha intrapreso al posto dell’università e mi parla del tirocinio che ha iniziato in azienda, dimostrando tutto il suo interesse.

La sua ragazza è al suo fianco e lui continua ad esserne innamorato di quell’amore fatto di ascolto, condivisione, ma anche di arrabbiature e discussioni che fanno crescere.

Lo vedo sereno, equilibrato.
E’ un giovane uomo che ora guarda avanti e s’impegna per il suo futuro.
Non più il ragazzo incerto che cerca una riva su cui approdare.

Porta avanti un lavoretto per seguire una sua passione: l’auto che si è comprato da solo e che ha sistemato poco alla volta, studiando la meccanica e tutto il resto.

Pensava di non avere interessi, di essere inconcludente, e invece sta studiando da solo il giapponese e quando parla della cultura nipponica gli brillano gli occhi.

Approfondisce tutto ciò che fa. Non resta mai in superficie.
Ha voglia di fare nuove esperienze, di mettersi alla prova, di cogliere le sfide… Mi trasmette entusiasmi che prima non aveva.

E continua a prendersi a cuore chi è in difficoltà: dall’amico al familiare. Vorrebbe vedere tutti sereni e soffre se capisce di non poter fare nulla per cambiare le cose.

Un’anima bella, come la definisco io.

Un giovane che è diventato grande, perché finalmente conosce le sue possibilità, “vede” i suoi punti di forza e si rende conto della sua unicità.

Se non è una bella storia questa… 😉