Vuoi vivere meglio? Smetti di “generalizzare” gli eventi negativi!

Tutte le esperienze che facciamo, tutti gli eventi che viviamo lasciano un segno dentro di noi.
Può essere profondo o meno e molto dipende da noi.
Le persone superficiali “trattengono” poco dentro di sé e quindi sembrano vivere meglio degli altri: non si trascinano pesi e non si caricano di responsabilità.

Ma chi non è così?
Chi è attento persino ai “dettagli” della sua vita?

Ci sono persone che, quando vivono un evento negativo, si soffermano talmente tanto su di esso da rivederlo a lungo nella loro mente. Così tanto a lungo da creare una sorta di segno indelebile.
Un incidente d’auto, la grave malattia di un amico, la fine di un amore, una bocciatura a scuola, una mancata promozione sul lavoro sono tutti “segni” che possono cambiare il modo in cui guardiamo le cose.

Il rischio è perdere la lucidità necessaria a circoscrivere quegli eventi.
E quando ciò accade, la tendenza è quella di “generalizzare” in negativo.
E allora, ad esempio, basta aver provocato un incidente d’auto per convincersi di non essere dei bravi guidatori, oppure aver finito l’anno scolastico con un debito per persuadersi di essere “limitati”, oppure veder finire una storia d’amore per credere di restare da soli…

E’ facile quindi generalizzare così tanto da estendere questa “negatività” anche al futuro.
E’ un po’ come sviluppare una sorta di pessimismo e sfiducia.
Le conseguenze sono ovvie: se per una volta che qualcosa va male, mi convinco che sarà sempre così o semplicemente che io sono così (cioè non sono bravo, non sono competente, non sono amabile…), allora mi limiterò da solo ed eviterò di mettermi alla prova o di cogliere nuove sfide; imparerò a giocare in difesa, senza arrivare mai a conoscere i miei veri limiti, visto che me li porrò da solo.

Ecco, se vi siete riconosciuti in questo atteggiamento mentale, non arrendetevi. La soluzione c’è!

– Prendetevi mezz’ora di tempo e fate in modo che nessuno vi disturbi né vi interrompa.
– Ora provate a rispondere a questa semplice domanda: “Quante volte vi è accaduta quella cosa negativa che vi blocca?”.
Sforzatevi di contare: una? Due volte? Quante esattamente?
– Ora fate un altro calcolo, rispondendo a quest’ultima domanda: “Quante volte avete fatto quella cosa nell’arco della vostra vita?”.

Bene!, adesso mettete in relazione le due risposte che avete dato e vi renderete conto che la vostra è una generalizzazione.

E se la vostra naturale tendenza è quella di generalizzare, per stare meglio dovete imparare a guardare ciò che vi succede con calma e lucidità, trovando le cause temporanee e specifiche che hanno prodotto quell’evento negativo.

Vedrete che, ragionando in questo modo, aprirete un varco che vi permetterà di guardare alla vostra realtà in modo più giusto e vero.
Così… sarete pronti a ripartire!

Ragazzi, ce l’avete un Sogno?

Quando chiedo ai ragazzi: “Qual è il tuo sogno?”, di solito mi rispondono: “Cioè?”, “In che senso?” oppure “Boh!”, “Non lo so”.

In effetti oggi sentono spesso parlare di “sogno”, ma non ne conoscono il significato, perciò glielo spiego così: “Innanzitutto il sogno non ha nulla a che fare con il dormire o il perdersi con la mente a fantasticare storie irrealistiche”.

E’ infatti qualcosa di molto concreto, un obiettivo molto importante che ci proponiamo di raggiungere facendo leva sulle nostre forze e capacità. Quindi è qualcosa di impegnativo, che richiederà tutta la nostra attenzione.

Un vero “sogno”, infatti, ci fa pensare alla conquista, ci fa sentire passione e non può essere “misurato” con l’importanza che gli attribuiscono gli altri, perché dev’essere “importante per noi”, per noi e basta.
Facciamo un esempio: per me un “sogno” è ottenere 8 in italiano. Per un altro, invece, è raggiungere il 10″.

A questo punto chiedo loro: “Qual è il tuo sogno”?
E se vedo che loro tentennano, perché non sono sicuri che si tratti di un vero “sogno”, fornisco loro questi INDIZI:

1) è qualcosa che vuoi conquistare e a cui pensi spesso;
2) è ciò che vuoi ottenere e che ti fa svegliare alla mattina con la voglia di “vivere” la giornata;
3) è un obiettivo per il quale le ore spese ogni giorno per esercitarti non sono un peso, ma un passo in più verso la conquista;
4) è qualcosa per cui sei disposto a “sacrificare” qualcos’altro (come chi fa agonismo e rinuncia ad uscire con gli amici per allenarsi);
5) è qualcosa che “ti fa battere il cuore” al pensiero di quando lo raggiungerai. E poi, quando immagini di averlo raggiunto, ti senti felice.

Non tralascio mai di aggiungere però che un “sogno” è anche sofferenza, rabbia, delusione, quando vedi che fatichi a raggiungerlo.

Ma il messaggio positivo è che è in quei momenti di abbattimento che tutti noi scopriamo CHI SIAMO e ci rendiamo conto della nostra forza e determinazione.

E… soprattutto capiamo se quello è davvero il nostro sogno o quello di qualcun altro (magari di un adulto che non è riuscito a raggiungerlo).

Recupera la… pazienza!

Che danni senza la pazienza!
Stress, ritmi serrati e pessima qualità del sonno ci fanno perdere una delle cose più preziose: la pazienza.
Le conseguenze sono ben note: stiamo male con noi stessi, tutto diventa un peso e rischiamo di compromettere i rapporti con gli altri.
E se i “freni” ci sono ancora con gli estranei, con i familiari scattiamo subito.
E allora ecco le liti, gli scontri e l’insofferenza di fronte a comportamenti e difetti con i quali conviviamo da sempre.
Ma se dopo lo “sfogo” ci sentiamo meno carichi e ci pentiamo, le frasi buttate fuori con rabbia e senza pensarci restano e feriscono l’altro che prenderà le distanze da noi, almeno per un po’.
Inutile poi chiedere scusa, se sappiamo già che presto scatteremo di nuovo.

Meglio spendere un po’ di tempo per capire qual è il nostro limite.

Domandarci “Quand’è che poi perdo la pazienza?” (magari quando sono troppo stanco).
E se riusciamo ad essere consapevoli delle cause, allora possiamo regolarci di conseguenza.

Conosco un manager che, quando capisce di essere troppo teso, lungo la strada del rientro a casa si ferma presso un parco e cammina per mezz’ora. Si scarica della tensione eccessiva e arriva a casa con più pazienza verso i figli piccoli e molto vivaci.

Possiamo anche noi trovare un modo per “scaricarci” e guadagnare un po’ di pazienza da regalare alla nostra famiglia.
Ne godranno i nostri familiari, ma anche noi, perché dopo lo stress quotidiano potremo chiuderci nel nostro “nido”, certi di prendere le distanze dal lavoro e quindi di ricaricarci per l’indomani.

Papà, quanto conta per te la scuola?

Oggi parliamo di presenza dei papà nella scuola, in particolare nella ex scuola media.
Presenza o assenza?
La risposta, ahimè, è quasi scontata: nella scuola se ne vedono ben pochi di papà.
Viene spontaneo domandarsi come mai, dato che anche la maggior parte delle madri lavora a tempo pieno.
Eppure alle riunioni della scuola secondaria di I grado (ex scuola media) le presenze maschili sono di 1 o 3 papà su 21 o 25 alunni.
Se poi vogliamo contare chi accetta l’incarico di rappresentante di classe, le percentuali precipitano.
“Oh, no. Grazie! Non ho tempo!”, “Figuriamoci! Non ho tempo neanche per stare dietro alle mie cose!” sono le risposte che forniscono i rari papà durante la prima assemblea di classe.
Verrebbe da ribattere: “Già, perché invece le mamme hanno un sacco di tempo! Soprattutto da dedicare a sé!”.

Per evitare polemiche, analizziamo la realtà: la maggior parte delle mamme bada ai figli (igiene, sport, medici, scuola, compiti) come fosse senza partner.
Generalizziamo ovviamente, ma le statistiche parlano da sole.
Alla ex scuola media, dove i preadolescenti avrebbero tanto bisogno di essere seguiti dalla figura paterna, sono sempre le mamme ad occuparsene (spesso insieme alla spesa, alle faccende domestiche, ecc.).

Non stiamo facendo il processo ai papà, anzi!
Vorrei che diventassero consapevoli del loro ruolo, che è fondamentale.
In questa fascia d’età, infatti, le mamme devono cominciare a cedere un po’ del loro potere e permettere ai papà di subentrare al posto loro in determinate situazioni.
La scuola è una di queste.

Ormai è chiaro che il successo scolastico di un figlio passa attraverso la sua motivazione allo studio, più che al ceto sociale a cui appartiene o al titolo di studio dei genitori.
E l’unico modo che i genitori hanno per spronare un figlio a studiare è trasmettergli ciò che pensano della scuola e del suo valore.
Se i genitori dimostrano quanto ci tengono alla scuola e allo studio, i figli daranno importanza all’istruzione e saranno più propensi a proseguire gli studi.
Se i genitori si disinteressano alla scuola, il messaggio che arriverà al figlio sarà che “la scuola non è importante”.
Che la mamma si occupi della scuola è scontato per i figli, ma che lo faccia il papà, no.

Forse non lo sapete, ma i ragazzi sono estremamente fieri di avere un genitore rappresentante di classe e, considerato che alla ex scuola media il numero dei genitori rappresentanti varia da 2 a 4 e le riunioni annuali con i rappresentanti sono generalmente 2/3 … direi che l’impegno non è poi così gravoso. Se poi pensate che i rappresentanti non sono nemmeno tenuti a stendere ufficialmente un verbale da condividere con il resto della classe, non vi è neppure il carico di scrivere, fotocopiare, diffondere.

Perché è così importante avere papà rappresentanti di classe?

I motivi sono diversi e in parte legati alle caratteristiche maschili.
Se da un lato va sottolineata l’importanza di mostrare al proprio figlio quanto si tiene a lui e alla scuola, oltre a dargli l’esempio di un impegno che è utile alla comunità, dall’altro lato i papà sono positivi perché riescono – con il loro intervento – ad abbassare la soglia di ansia spesso tipica delle mamme. Sono anche più diplomatici su certe questioni e capaci di restare lucidi di fronte a problemi che invece infiammano le madri. In generale hanno anche la capacità di sdrammatizzare e spesso portano proposte concrete per risolvere situazioni in stallo.
Raramente sono “pettegoli” e odiano perdere tempo sulle chat della classe.

Perciò, cari papà, non delegate le mamme!
Accettate la sfida e candidatevi senza farvi pregare.
Se poi non vi piacerà, potrete ritirare la vostra candidatura l’anno seguente. Ma almeno ci avrete provato!

La scuola ha bisogno di entrambe le figure: mamme e papà. E i vostri figli, pure.

Quando i figli rifiutano il dialogo, cosa fare?

Prima erano dei bimbi adorabili, vi raccontavano e vi domandavano di tutto e per voi erano facilmente gestibili. Poi la trasformazione: tra gli 11 e i 17 anni cambia tutto e voi non li riconoscete più. Sbattono le porte, rispondono con un’alzata di spalle e a tavola stanno in silenzio. Poi si attaccano al telefono e parlano con tutti tranne che con voi.

MA CON CHI CE L’HANNO?

Siete voi genitori quelli da cui devono distaccarsi per “crescere” e diventare autonomi.
Perciò cercheranno di farvi sentire in colpa per il tempo che non potete dedicare loro e perché lavorate troppo.
Cercate di non perdere autorevolezza e non lasciate che i vostri figli diventino dei tiranni.

PERCHE’ PARLANO SOLO CON GLI ALTRI?

In casa stanno in silenzio e spesso si chiudono nella loro stanza: evitano di rispondere alle vostre domande, non vogliono parlare di sé. Con gli altri, invece, sono chiacchieroni, allegri e vivaci.
Ovvio che voi li sentiate sempre più distanti da voi, ma non significa che loro non vi amino.
Sentono il bisogno di crescere e per questo spostano la loro attenzione verso il “mondo esterno”, perché non vogliono essere risucchiati da voi e dal mondo che ormai sta loro stretto.

COSA FARE?
Sicuramente rispettare i loro silenzi e non forzarli a parlare.
Piuttosto siate voi genitori a parlare con loro, raccontando la vostra giornata o coinvolgendoli nelle decisioni che riguardano tutta la famiglia.

PARLA CON ME SOLO QUANDO VUOLE QUALCOSA.

Provate a domandarvi: “Ma io come comunico con lui?”.
Vi renderete conto che le vostre domande sono generalmente legate a fatti: “Hai fatto i compiti?”, “Hai messo in ordine la tua stanza?”, “Con chi esci?”.
Manca la “comunicazione interiore”, cioè quella delicata, sensibile.
“Ho notato che sei un po’ triste: va tutto bene con la tua ragazza?”, “Senti, ma quali sono le materie che ti piacciono di più a scuola?”.
In questo caso le domande non danno l’idea dell’interrogatorio e i figli capiscono che “ci siete” e sarete lì sempre per loro, anche se in quel momento non sono pronti a darvi una risposta.
Perciò, non state ad origliare le loro telefonate o a curiosare sul loro diario segreto…

Semmai, fate i conti con le vostre paure. Di che cosa avete davvero paura?

Siate sinceri con vostro figlio e ditegli la verità in modo semplice: “Ho paura quando esci, se non so con chi sei e che cosa farai”.
Se poi non ricevete risposta e vi ritrovate faccia a faccia col muso lungo di vostro figlio, be’, non iniziate una guerra verbale con lui. Tanto è inutile.
Senza rendersene conto, scarica su di voi la sua rabbia, che è l’unico modo per staccarsi da voi.

COME INTERVENIRE?

Siate distaccati, non fatevi coinvolgere.
Non perdete autorevolezza, ma evitate lo scontro.
Spiegategli che, se è arrabbiato per qualcosa che non c’entra con voi, vi dispiace, ma le delusioni e i dispiaceri sono una cosa normale nella vita. Si superano. Per questo è ingiusto che se la prenda con voi.

E SE SI CHIUDE IN CAMERA SUA?

I figli ne hanno bisogno: quando sono tristi, arrabbiati o hanno voglia di tranquillità.
Cercano uno spazio privato in cui sentirsi liberi.
Stanno sul letto e fissano il soffitto: in questo modo ritrovano se stessi, pensano, imparano a stare senza il gruppo, fanno pace con se stessi e tornano in forze per affrontare la Vita.

UNA BUONA OPPORTUNITA’: UN MENTORE.

Se proprio non riuscite a dialogare con vostro figlio, ma vi accorgete che lui ha stabilito un buon rapporto con uno zio o con un Teen Coach o con un insegnante di cui si fida, fatevi da parte e lasciate spazio a questo mediatore del quale avete fiducia.
Può essere una soluzione vincente, perché l’importante è che vostro figlio si confronti e parli con un adulto che sia capace di guidarlo.

Una “dritta” per comunicare bene coi figli.

Sapete quanti ragazzi mi dicono di parlare poco coi genitori per evitare di sentirsi dire: “Tu sei…”?

Già, perché di fronte ad un comportamento che non piace, viene spontaneo a un genitore dire: “Ecco, SEI un egoista!” o menefreghista o insensibile o quello che volete.
Niente di peggio se si vuole comunicare davvero coi ragazzi.
L’effetto è che si chiudano a riccio, perché si sentono etichettati negativamente in una fase della vita in cui stanno cercando di capire chi sono.

“Eh, sì!, allora cosa dobbiamo fare?! Dirgli solo cose carine? Magari false?!?”.

No di certo.

E’ importante far capire ai figli dove sbagliano, ma senza trasformare l’insegnamento in un giudizio sulla persona, altrimenti ne risentirà la loro autostima oltre che il rapporto con voi.
Al posto di dire “Sei un egoista!”, dite: “In quella situazione ti sei comportato in maniera egoista!”.

Già sento i possibili commenti: “Beh, non è la stessa cosa?”.
No.
Fate una prova: ditelo a voi stessi. Sentirete la differenza!

La cosa importante è precisare sempre “in quale momento o situazione” si è comportato in modo scorretto. Deve capire che lui non è “così”, ma quella volta si è comportato come tale e non va bene.
Nella frase “ In quella situazione ti sei comportato in maniera egoista!”, infatti, c’è spazio per rimediare: è capitato quella volta lì, ma puoi fare meglio.
Se invece diciamo che “lui è così” … perché mai dovrebbe cambiare? In fondo l’abbiamo già catalogato.

Altre parole da censurare sono gli avverbi “sempre e mai”.

Siamo onesti: a voi non dà fastidio quando qualcuno vi dice “Tu fai SEMPRE così!” oppure “Tu non sei MAI puntuale!” o “Sei SEMPRE nervosa (o stanca o silenziosa…)”, “Non mi ascolti MAI!”?
Io lo trovo fastidiosissimo e anche i ragazzi sono sensibili a questi “avverbi”.
Se, ad esempio, chiedete a vostro figlio di apparecchiare la tavola e lui se ne dimentica per ben due volte, è sbagliato dire che non lo fa MAI, perché non è vero. Con la vostra osservazione è come se gli mandaste un invito a non farlo del tutto.

Perciò, se volete ottenere dei risultati, sforzatevi di dire: “OGGI non hai apparecchiato” oppure “Sono due volte che ti dimentichi di apparecchiare”.

L’importante, però, è essere coerenti e, una volta deciso di cambiare modalità di comunicazione, farlo “sempre”. Altrimenti perderete di credibilità e riconquistarla diventerà un’impresa.

Vuoi essere più rispettato? Migliora la tua Intelligenza linguistica!

Quanto conta per voi saper comunicare bene con gli altri?
E quanto vorreste che i vostri figli sapessero esprimersi con chiarezza e proprietà?

Credo che tutti abbiano desiderato di saper parlare e scrivere meglio almeno una volta nella vita, perché prima o poi arriva quella situazione in cui avere una spiccata intelligenza verbale fa la differenza.
E se è vero che esistono tanti tipi di intelligenza, quella “verbale-linguistica” è certamente una delle più importanti, perché riguarda la capacità di comprendere e utilizzare in modo efficace la lingua parlata e scritta.
Pensate agli scrittori, ai poeti, agli avvocati, ai politici e ai comunicatori di tutti i tipi, dal blogger allo youtuber, dall’insegnante al giornalista o dal dj al comico: hanno tutti in comune una spiccata capacità di usare le parole efficacemente sia nella scrittura che nella parola, oltre alla capacità di comprendere facilmente il lavoro scritto. E si sa che le persone che sanno esprimersi chiaramente sono percepite come più intelligenti di altre. E, siamo onesti, a loro viene anche conferito maggiore rispetto.

Quindi, come mai non continuiamo a migliorare le nostre abilità verbali?

Semplice! Le diamo per scontate!
Ma chi è genitore, sa quanto sia importante a scuola che il proprio figlio sappia esprimersi correttamente durante le interrogazioni o nella stesura di temi.

Per questo oggi parliamo di come sviluppare questa “intelligenza”… a qualsiasi età.

Vi suggerisco alcuni modi, tutt’altro che noiosi e da usare quotidianamente:

1. CONVERSARE A TAVOLA.
Significa mettere da parte il cellulare, spegnere la tv, e chiacchierare con i familiari (magari raccontando come è andata la giornata) o con gli amici o con i colleghi. Sarà anche un modo per conoscere le loro idee, esperienze e opinioni.

2. GIOCARE CON GLI AMICI A “SCARABEO”.
Si tratta di trascorrere momenti sereni, usando la vostra conoscenza della parole per confrontarvi con gli altri giocatori. Una piccola sfida per verificare a che livello siete e rendervi conto se è il caso di migliorare.
Giocare con gli altri è un ottimo modo per mettere in pratica le vostre capacità comunicative e imparare dalla conoscenza e dalle idee degli altri.

3. RISOLVERE CRUCIVERBA ED ENIGMI.
E’ davvero un buon modo per usare quel poco tempo – libero – che vi ritrovate quando, ad esempio, siete in attesa dal dentista o sul treno oppure, se siete genitori, quando aspettate che vostro figlio termini il suo allenamento sportivo.
Basta rinunciare ai Social media e acquistare la Settimana enigmistica o scegliere l’app che più vi piace: ce ne sono molte gratuite per Iphone e Android.

4. TENERE UN DIARIO GIORNALIERO.
Si tratta di qualcosa di personale, segreto. Nessuno leggerà ciò che scrivete, a meno che voi non lo vogliate.
Scrivere ogni giorno una riflessione sulla giornata trascorsa o una breve descrizione di che cosa avete fatto, migliorerà le vostre capacità di scrittura e il modo con cui vi esprimete. Potete utilizzare anche il cellulare o il tablet o il pc.
Tra l’altro, dedicarvi un momento tutto vostro per “registrare” i vostri pensieri e avere tempo per “guardarvi dentro”, migliorerà anche la vostra capacità introspettiva e vi renderà consapevoli di molti aspetti della vostra vita.

5. LEGGERE LIBRI, ARTICOLI, RIVISTE.
Leggere è fondamentale, lo sapete, ma è importante cambiare generi , soggetti e stili. Ad esempio, leggere un libro di avventura, ma poi cimentarsi con uno fantasy e poi un altro di fantascienza, ecc. Leggere sempre romanzi “semplici” non aiuta a migliorare.
Provate allora a “sfidarvi”, affrontando letture più impegnative.
Questo è ancora più importante se si tratta di bambini e ragazzi: mai lasciare che leggano solo “libretti” dai contenuti leggeri e brevi, magari indicati per lettori di età inferiore rispetto a quella di vostro figlio. Se il libro è indicato per gli “8 anni”, non proponetelo ad un figlio che ne ha 9 o 10. Puntate pian piano più in alto.
Al termine della lettura, perché non scrivere una breve recensione (magari sul vostro profilo Facebook, in modo da condividerla)?

6. SCRIVERE LETTERE.
I nativi digitali, che hanno dimestichezza con il computer e certamente amici sparsi in tutto il mondo, possono scrivere loro e-mail in cui raccontano, come nelle lettere tradizionali, di sé e della loro vita.
Non vi consiglio la chat per migliorare le capacità compositive, perché è troppo breve e veloce. Inoltre si finiscono per usare abbreviazioni ed emoticons  che non sono utili a raggiungere lo scopo.
Consiglio anche di “scrivere su carta”, magari ai nonni, ai genitori… e non solo nelle grandi occasioni, come il Natale o altre festività.
Perciò, recuperate un po’ della tradizione e scrivete!
I nonni lo apprezzeranno sicuramente tanto!

7. IMPARARE UNA PAROLA NUOVA AL GIORNO.
Imparare una nuova parola ogni giorno è un ottimo modo per migliorare il vostro vocabolario. Ci sono molti siti web di dizionari che offrono gratuitamente “la parola del giorno”: potete iscrivervi per riceverla.
La cosa importante, però, è poi sforzarvi di usare quella nuova parola, trovando il modo di esercitarvi per giorni. Non basta infatti conoscere il significato delle parole se poi non si sanno inserire e usare nel contesto giusto.

8. ALLENARE LA FLUIDITÁ.
Si può fare attraverso un gioco (orale o scritto): ci vogliono almeno tre partecipanti e consiste nel ricordare e scrivere più parole che iniziano con la lettera stabilita dal “direttore” del gioco. Tempo per trovare tutte le parole, 1 minuto. Faccio un esempio: il “direttore” del gioco decide la lettera e monitora il tempo, dando il “via” e lo “stop”, in questo modo: “Parole che iniziano con la lettera… F” (e parte il tempo). I giocatori scrivono il loro elenco e quando il tempo finisce, il “direttore” controlla la validità delle parole. VIETATI i nomi e cognomi delle persone, ma anche i nomi di città. Tutto il resto, va bene. Vince chi totalizza più parole corrette.

Migliorare la vostra INTELLIGENZA VERBALE non è difficile! Basta volerlo!

Cari Genitori, urlare non serve: ci vuole un piano educativo.

Chi è nato negli anni ’60 quasi certamente avrà avuto genitori piuttosto autoritari che non lo iperproteggevano né accontentavano in tutto. Le regole erano ben chiare e venivano fatte rispettare in modo rigido e intransigente.
I genitori raramente chiedevano scusa per i loro sbagli e i figli, finché vivevano in casa dei genitori, dovevano adeguarsi. Regole, educazione e ordini stavano alla base della crescita dei figli.
Oggi pensare a questo tipo di educazione fa un po’ rabbrividire (sebbene tutti i figli di allora siano sopravvissuti).
Tuttavia, come ben notiamo, il modello educativo che ha sostituito quello degli attuali nonni non è certo migliore né ha prodotto risultati migliori.

Siamo passati dall’autoritarismo al totale permissivismo e mi trovo d’accordo con Daniele Novara, pedagogista, nel sottolineare che la causa è la mancanza di un progetto educativo chiaro e condiviso.

La maggior parte dei genitori di oggi NON ha idea di quali regole dare né di come fare a farle rispettare.
Manca una vera e propria organizzazione e si guidano i figli sull’onda delle emozioni.
Mi viene in mente una conoscente che è solita urlare alla figlia adolescente frasi umilianti  per poi – un’ora dopo – cercarla e abbracciarla come se nulla fosse accaduto.
Niente di più deleterio!

Per crescere sani, passatemi il termine, ci vogliono regole chiare e soprattutto condivise da entrambi i genitori.

Se la madre dice al figlio di rimettere a posto i giochi e il papà commenta: “Ma non fa niente! Che importa!” vanifica tutti gli sforzi della moglie e ottiene che la moglie si infurierà e il figlio si farà l’idea che “papà è buono e mamma cattiva”, senza capire che mettere in ordine i giochi crea una positiva routine.

Oggi abbiamo genitori che “fanno gli amici”, si mettono sullo stesso piano dei figli, li coinvolgono in argomenti riservati agli adulti e li trattano come dei piccoli principi, permettendo loro di “comandare”.

Questo genera nei figli una grande confusione di ruoli. Chi è il genitore? Chi deve stabilire le regole?

Una 28enne, che ho seguito con il Coaching, mi ha confessato che da adolescente invidiava le amiche a cui i genitori imponevano orari di rientro a casa la sera, perché “si capiva che ci tenevano”. A lei non erano mai stati dati “perché a loro non importava nulla di me” diceva.

Quindi SERVONO REGOLE.
La spontaneità e l’improvvisazione in campo educativo vanno bandite, perché bisogna riflettere sulle regole da dare e farle rispettare in modo coerente.

LA REGOLA NON E’ SINONIMO DI COMANDO.

Come precisa Novara, il comando è: “Stai seduto!”, mentre la regola educativa è: “A tavola si mangia seduti” .
La regola deve essere qualcosa di impersonale e oggettivo. Occorre evitare i comandi e stabilire regole oggettive:  come si mangia a tavola; l’orario in cui si va a dormire; il tempo per fare i compiti; l’ora di rientro alla sera”.

Ovviamente, nel DECIDERE QUALI REGOLE DARE AI PROPRI FIGLI è importante essere d’accordo col partner e chiedersi – come suggerisce Novara – se e in che modo una regola è UTILE ALLA CRESCITA dei propri figli.
Dietro a tutto ci deve sempre essere un intento pedagogico.

E COSA C’ENTRANO LE URLA?
C’entrano, perché di fronte a un figlio disubbidiente, i genitori permissivi vanno in crisi e non sanno più cosa fare, perciò… URLANO!
E il figlio non capisce.
Non serve fare lunghi discorsi, ma è utile essere chiari nella spiegazione e trovare soluzioni semplici, come fargli preparare la cartella la sera prima se ci si è accorti che il proprio figlio dimentica spesso a casa astuccio o quaderni.

In tutto questo, IL RUOLO DEI PAPA’ è FONDAMENTALE.

Siamo onesti: oggi i papà si defilano spesso, demandano alle mamme o diventano “mamme tenere” a loro volta.
Così i bambini hanno due madri –  figure protettive – e nessun papà.
Ma il ruolo del padre è diverso. Deve esserlo.
E’ lui a dover trasmettere quella giusta spinta a “fare esperienza”, a misurarsi con ciò che non si conosce, a trovare il coraggio di affrontare le difficoltà.
Novara infatti spiega: “Il padre che consente al figlio di fare da solo mette le basi perché il figlio, una volta cresciuto, se la sappia cavare nella vita”.
E’ il papà quindi a dover affiancare il figlio per fargli “sentire” che ce la farà.
E questo, insieme all’accudimento della madre, farà crescere il “cucciolo” sicuro di sé e delle proprie capacità… senza il ricorso a urla e strilli.

Vuoi smettere di urlare contro tuo figlio? Lavora su di te!

Sono molti i genitori che utilizzano gli strilli per comunicare coi figli.
Se siete tra questi, vorrei farvi una domanda: “PERCHÉ URLATE”?

Vi siete mai chiesti perché utilizzate questa modalità?
Forse la usavano con voi i vostri genitori? Forse state scaricando il vostro stress o la vostra frustrazione o la vostra stanchezza?

“Urlare” non è la soluzione e spesso non porta al risultato che speravate.
Dunque il primo passo è capire il motivo per cui gridate. Provate a pensarci e annotatevi le risposte.
Considerate, ad esempio, che quando urlate a vostro figlio che “è disordinato e la sua camera è un porcile”, NON GLI STATE INSEGNANDO NULLA: lo state semplicemente giudicando e criticando.

Molti genitori strillano perché, mentre stanno facendo più cose insieme (come guidare e parlare al telefono in vivavoce) i figli li interrompono con l’ennesima richiesta, ma di esempi ce ne sarebbero davvero molti e di questo e molto altro parla Rona Renner nel suo libro “Smettere di urlare è facile”.

Urlare contro i figli CREA PROBLEMI NELLA RELAZIONE e non fa bene nemmeno ai genitori, visto che il battito cardiaco accelera e la muscolatura si contrae.
Se lo scopo è insegnare ai figli qualcosa di importante, gridare non è necessario: molto più utile è RISPONDERE IN MODO FERMO, CALMO e piantare dei paletti.
Se vostra figlia sta giocando felice sul pavimento e voi le dite: “E’ ora di vestirsi e andare a scuola. So che ti piace giocare, ma il tempo è finito” e lei non fa una piega, proseguite con tono fermo (ma non rabbioso né minaccioso): “Se oggi arrivi tardi a scuola, non giocherai nel pomeriggio. Ti vesti da sola o vuoi che ti aiuti?”.
In questo modo – spiega la Renner – le state insegnando l’importanza della routine mattutina. E, visto il vostro tono calmo e fermo, lei sarà più propensa ad ascoltarvi.

URLARE SPAVENTA I BAMBINI, MA NON LI EDUCA.

Allora non bisogna urlare mai?
Al contrario, in certe situazioni è necessario.
Lanciare un urlo, ad esempio, è fondamentale quando vogliamo evitare una tragedia (pensate ad un figlio che sta per attraversare la strada senza notare l’auto in arrivo).

Per il resto, urlare può avere CONSEGUENZE SULLA CRESCITA dei propri figli ed è il caso di tenerne conto.
E’ infatti probabile che i figli – crescendo con le urla e i comandi – manifestino COMPORTAMENTI AGGRESSIVI (verbali e fisici) o che fatichino ad essere empatici nei confronti degli altri bambini.
In loro potrebbe aumentare la RABBIA. Una rabbia che poi esploderà durante l’adolescenza, come attestano alcune ricerche.

Alcune mamme sensibili che conosco ora esclameranno: “Oddio! Allora HO ROVINATO MIO FIGLIO!”.

State tranquille e LAVORATE SU DI VOI:
– come siete cresciute
– quali sono le vere cause che vi spingono a urlare
– quali reazioni hanno i vostri figli alle urla
– come vi sentite voi dopo aver urlato…

Annotatevi tutte le riflessioni SU UN QUADERNO, perché saranno quelle a RENDERVI CONSAPEVOLI di chi siete e del perché reagite in quel modo.
Chiedetevi poi se SIETE ARRABBIATE DAVVERO CON I VOSTRI FIGLI oppure con altri… magari con voi stesse o con il partner.

Vi faccio un classico esempio:
se una mamma è stanca, non vede l’ora di andare a dormire e il marito se ne sta tranquillo sul divano a guardare la tv o a giocare alla Play mentre lei impazzisce per mettere a letto i figli, le urla che lei scarica sui bimbi in realtà sono rivolte al partner ed esprimono tutta la sua rabbia nel non sentirsi sostenuta né aiutata.

Un ESERCIZIO UTILE dopo una urlata, quindi, è annotarsi che cosa l’ha realmente scatenata.

E fondamentale è capire CHE TIPO DI FIGLIO AVETE e di che cosa aveva BISOGNO nell’attirare la vostra attenzione: voleva essere abbracciato, coccolato, ascoltato, limitato o contenuto?
Non dimenticate anche l’età di vostro figlio, perché a 4 anni magari vuole essere coccolato, ma se è adolescente è probabile che voglia misurare (con il suo modo di esasperarvi) quanto lo amate.
Non dimenticate infine che smettere di urlare non significa bandire le regole, anzi!

LE REGOLE spettano a voi, che DOVETE STABILIRLE e farle rispettare.

Avere un rapporto sereno coi figli, nonostante lo stress del lavoro, è importante e a questo scopo la Renner consiglia di:
– Comunicare in modo chiaro e semplice quali sono le regole da seguire.
– Stabilire delle conseguenze nel caso non si rispettino le regole (se in casa non si deve giocare a palla e vostro figlio lo fa e non vuole smettere, portategli via la palla. Meglio agire che stare a discutere).
Essere in sintonia col proprio figlio, facendogli sentire il vostro amore, dedicandogli del tempo, ascoltandolo, giocando con lui.

Prossimamente approfondiremo altri aspetti su questo argomento delle “urla”.

Non mancate di leggerli e di farmi avere le vostre riflessioni.

Vuoi arricchire il tuo bebé? Usa il linguaggio!

Avete presente le neomamme, ma anche le neo-nonne e le neo-zie?

Parlano tutte in modo buffo con il nuovo arrivato: “Guarda il ciufciuf!”, “Che bello quel baubau!”, “Facciamo la pappa!”… Ma non solo: spesso chiacchierano col neonato ripetendo frasi come: “Ma come sei bello!” , “Bello di mamma!”.
Lo fate anche voi, eh?!

E magari vi sentite combattute al pensiero che poi vostro figlio “parli male” crescendo.

Conosco infatti una donna manager che quando è diventata mamma mi ha detto: “Non storpierò mai le parole per comunicare con mia figlia! Voglio che impari ad esprimersi correttamente e non con brumbrum, ciufciuf!”.
In effetti nel corso del tempo sono apparsi studi su questo argomento con pareri contrastanti: chi demonizzava il linguaggio usato dalle mamme e chi invece lo incoraggiava.

Oggi a che punto siamo?

Va bene usare questo linguaggio semplice, basato sulla componente affettiva?
Ha un senso giocare con la voce, la mimica facciale e la postura per comunicare col nostro piccolo?

Certamente sì, perché vostro figlio si sentirà rassicurato e compreso.

La vostra voce, infatti, ha un potere enorme su vostro figlio e il bello è che questo linguaggio – chiamato “motherese” – lo aiuta ad apprendere.
I suoni che ascolta, infatti, lo stimolano ad essere più reattivo agli impulsi provenienti dall’esterno e più perspicace.
Usate pure ciò che vi viene spontaneo: cantilene, domande e frasi ripetute (“Che fai?”, “Che fa’ il mio tesoro?”). Serviranno al bebè a metabolizzare bene le parole e quindi ad abituarsi e a comprendere.
Il “motherese” o baby talk non si impara: alle mamme viene naturale, ma ai papà no.
E’ una conversazione fondamentale in cui il bebè (nel corso del primo anno di vita) risponde con dei semplici suoni. Ecco perché i papà sono in difficoltà: perché non lo capiscono.
“Baccio” al posto di braccio, “quetto” (questo), “cappa” (scarpa), “elicotto” (elicottero)… E poi ancora: “Baubau, pappa, popò”… per le mamme è tutto chiaro, per i papà è incomprensibile!

Forse vi sembrerà strano, ma questo linguaggio aiuta i bambini a imparare le parole, soprattutto tra i 12 e 16 mesi.

Quindi non esitate a usare il “motherese”!