Quando essere assertivi non porta al risultato… Ecco cosa fare!

Spiego sempre ai miei coachee (clienti) quanto sia importante sviluppare una buona assertività, per saper dire di no e far valere i propri diritti e bisogni.
Essere capaci di farlo, cambia la vita e permette di avere maggiore autostima.
E non c’è un limite di età per diventare assertivi: i fortunati lo imparano da ragazzi, mentre gli over 40 ci arrivano con qualche sforzo in più.
Ma, per esperienza, posso dire che è un obiettivo raggiungibile, se ben guidati a farlo.

Quindi… se impariamo a essere assertivi abbiamo risolto tutti i nostri problemi… O no?

Antonella ne era convinta e ha faticato parecchio per diventarlo.
Poi, un giorno, nell’appartamento sopra il suo si è trasferita una giovane e chiassosa coppia con un bambino piccolo e un cane di taglia media. La sua tranquillità e serenità sono scomparse, perché la famigliola era indifferente alle più elementari norme di convivenza civile e quindi non c’era più pace.

Cosa fare, se non usare tutta l’assertività di cui era capace?

Mi spiegava di averle provate tutte: prima il dialogo diplomatico, poi una esplicita richiesta di “attenzione e comprensione” nei suoi confronti, per arrivare a una lettera attraverso l’amministratore, ecc.
Risultato? Nessuno!
Se non uno stato di esasperazione, con sentimenti che variavano dalla rabbia alla frustrazione.

Cosa ci insegna questo?

Che l’assertività non porta ad alcun risultato se si scontra con il menefreghismo dell’altro.
Possiamo essere capaci di far presente il disagio che ci procura l’altra persona col suo comportamento irrispettoso ed egoista, ma se l’altro è assolutamente sordo e indifferente alle nostre richieste, non risolveremo nulla.

Questo non vuol dire aver sprecato tempo ed energie.
Chi è assertivo ha indubbiamente una marcia in più, perché “combatte” e non subisce in silenzio.
Non si comporta da vittima, ma agisce per ottenere ciò che desidera.

Esiste, tuttavia, un limite: l’altra persona (con le scelte che fa, i comportamenti che assume, ecc).

E allora cosa possiamo fare?
Certamente non passare il tempo a lamentarci, sebbene a ragione.

Meglio concentrarci sul trovare soluzioni che dipendano “solo” da noi, che portino al nostro benessere, qualunque esso sia.

Decisioni da prendere con lucidità e rispetto del nostro modo di essere: dal mettersi i tappi nelle orecchie per sopportare i rumori molesti, alla scelta di rivolgersi ad un avvocato, fino alla decisione drastica di cambiare casa.

Le scelte sono soggettive, ma ci permettono di non subire.
E questo, chi è assertivo, lo sa!

Impara a chiedere aiuto, se ti vuoi bene.

Nadia è una bella cinquantenne, cresciuta in una famiglia vecchio stampo, con due genitori che hanno cresciuto i figli senza aiuti e un padre che, nel lavoro, si è fatto tutto da sé.
Il mantra che lei ha ascoltato sin da piccola è “Chi fa da sé, fa per tre” e infatti non ha mai visto i suoi genitori chiedere aiuto a nessuno. E le rare volte in cui l’hanno fatto, si sono sdebitati immediatamente con un dono.

Questo l’ha spinta a fare altrettanto, con grandi sacrifici e molte frustrazioni, caricandosi sempre più pesi e rifiutando l’aiuto di chi glielo offriva, col risultato di apparire orgogliosa, forse anche un po’ superba.
Tutti la vedono indipendente, autonoma, forte… Così deducono che non abbia né gradisca l’aiuto di nessuno e lei ne soffre.

Ci sono tante persone come Nadia, “bloccate” nel chiedere o incerte sul farlo per non sembrare invadenti o inopportune.

La verità, però, è che tutti abbiamo bisogno di sostegno, che sia concreto o psicologico.

Saper chiedere ci rende “umani” agli occhi degli altri. Non farlo, ci fa apparire come supereroi (anche se non lo siamo) e nessuno ama avere a che fare con un supereroe, perché fa sentire inadeguati.

Ma come “chiedere”?

Ovviamente, prima di farlo, valutare la possibilità di fare da sé, se non altro per evitare di approfittarci dell’altro.

Importante è aver chiaro ciò di cui abbiamo bisogno ed esprimerlo con semplicità: scegliere il momento adatto e le parole giuste.
Fare la nostra richiesta con tono spontaneo e frasi sincere.

Non dobbiamo temere di essere giudicati o rifiutati.

Lo scopo è chiedere aiuto, non essere certi che ci verrà accordato.

Perciò non dobbiamo nascondere di essere in difficoltà: non si tratta di fare le vittime, di piangersi addosso, ma di chiedere consiglio o aiuto in qualcosa che non siamo in grado di fare da soli.

Una volta ricevuto l’aiuto, poi, non sdebitiamoci subito, come a dire “Ecco, non ti devo più nulla! Con te ho chiuso!”, ma

ringraziamo con qualcosa di simbolico: un fiore, un bel biglietto di gratitudine, parole di ringraziamento sincere.

Tanto è scontato che, se siamo persone che chiedono poco, saremo grate e disponibili a ricambiare quando l’altro avrà bisogno.

Maledetta ansia scolastica! Come aiutare i figli a vincerla.

Sono molti i ragazzi che soffrono di ansia da prestazione scolastica e non vi è età, dato che coinvolge sia gli studenti della primaria sia gli universitari.

Ma di che cosa si tratta?

Di solito è legata alla paura dell’insuccesso, del giudizio negativo degli altri oppure al timore di non essere in grado di superare la verifica o l’esame.
Praticamente parte dal desiderio di essere ammirati, amati, ma anche dalla paura di essere ridicolizzati o addirittura rifiutati in caso di mancato superamento della prova.

I genitori, d’altra parte, sono spesso concentrati sul rendimento scolastico, sui voti, e talvolta pongono poca attenzione agli aspetti emotivi e affettivi.

Quante volte capita che figli diligenti e sensibili facciano di tutto per ottenere voti eccellenti nella convinzione di poter essere più amati dai genitori (magari rispetto a fratelli e sorelle)!

Il problema è che si crea un circolo vizioso: più i figli temono di sbagliare la prova e più aumenta l’ansia, con la conseguenza di sbagliare davvero e alimentare quindi la paura di non farcela.

Da dove partire per aiutarli?

Prima di tutto, facendo loro capire che non è necessario essere bravi a tutti i costi: l’importante è dare il meglio di sé, impegnarsi.
E poi smetterla di ragionare e valutare i figli in termini di “numeri”, cioè voti.

I figli devono aver chiaro che il loro “essere”, fatto di valori e qualità, è nettamente separato dal loro “avere” buoni voti.
Se sbagliano una prova, restano comunque degli “esseri stupendi”!

Dobbiamo poi renderli consapevoli che “sbagliare” fa parte dell’affrontare la vita ed è bene che accada, per imparare a superare la frustrazione che ne deriva.
Perciò affianchiamoli per far loro capire dove hanno sbagliato e trovare insieme il modo di recuperare, ma in totale assenza di giudizio.

I figli hanno bisogno di essere rassicurati sul fatto che non li vogliamo “perfetti”.

I ragazzi, che si pongono da soli obiettivi ambiziosi, tendono a non accettare cali di rendimento.
Ecco che dobbiamo farli riflettere sugli inconvenienti, come ad esempio un mal di testa, che possono limitare la prestazione.

È necessario che capiscano di non poter avere sempre un costante ed eccellente rendimento, perché ci sono variabili fuori dal loro controllo.

E… che siano sportivi o meno, facciamo in modo che “si scarichino”, magari andando all’aperto, nel verde, perché l’ansia prosciuga le energie e per rendere al meglio c’è bisogno proprio di quelle.

La primavera è alle porte, ma i ragazzi stanno “sfiorendo”!

La primavera è rinascita, cambiamento. E per i ragazzi è da sempre momento di gioia, di nuovi amori, di conto alla rovescia. Sono questi i mesi dello sprint finale per evitare i debiti, ma anche i fine settimana da trascorrere al parco con gli amici. Momenti fondamentali per un adolescente che ha bisogno di risultati, ma anche di confronto e condivisione con gli altri.

Oggi, però, i ragazzi osservano la primavera dalla finestra e, se a novembre erano arrabbiati, a dicembre in crisi, ora sono stanchi e demotivati, esasperati e depressi, perché la percezione che hanno è che “non cambi nulla”.

E non possiamo dargli torto.

Come Teen Coach me ne rendo conto, perché li seguo da vicino.
I mesi scorsi mi chiedevano aiuto perché la concentrazione scarseggiava durante le lezioni a distanza e  i voti si abbassavano. Mancava loro il rapporto diretto coi compagni e con i docenti, ma almeno avevano la speranza di veder cambiare le cose.

Ora non più.

Il breve ritorno alla didattica in presenza, per certi versi, ha solo peggiorato la situazione, perché i ragazzi si sono trovati a sostenere verifiche e interrogazioni quotidiane svolte in tempi stretti e con zero tolleranza da parte dei docenti. Nulla a che vedere con la “scuola” in presenza a cui erano abituati.

I liceali che seguo, infatti, mi raccontano di interrogazioni fatte a cronometro (dieci minuti e stop), di settimana in presenza con più interrogazioni giornaliere… Gli universitari mi parlano di esami scritti che nemmeno possono rivedere, una volta corretti.
Sbagliare e non sapere dove né come rimediare… Davvero destabilizzante per chi ci tiene a migliorare.

Già, perché gli adolescenti non sono tutti svogliati, votati all’happy hour: ce ne sono tanti che considerano la scuola/università importante e che si impegnano per ottenere buoni risultati.

Ora però sono sfiniti.
Io li vedo, ascolto i loro vissuti e mi rendo conto che stanno pagando un prezzo altissimo a causa della pandemia.

Studiano, si impegnano, seguono le lezioni, ma i mesi tutti uguali ormai sono tanti e “nulla cambia” per loro. Hanno esami e verifiche concentrati in poco tempo, così l’ansia da prestazione aumenta a dismisura. Ed è facile poi dire “basta che studi”. Non è così. Non basta. Non più.

Spesso hanno a che fare con docenti a loro volta pressati, inquieti, preoccupati e spaventati all’idea del contagio. Docenti che si sono dovuti inventare una nuova didattica, piegare a protocolli sempre diversi, senza aver più un confronto diretto con gli studenti.
E così molti hanno perso di vista l’aspetto più importante dell’essere docente: l’umanità, fatta di comprensione e tolleranza per la fatica condivisa.

Quale soluzione trovare?

Non c’è un “vaccino” uguale per tutti.
Tuttavia dobbiamo far sì che i giovani non si abbattano del tutto.

Dobbiamo coltivare in loro la speranza.
Non quella per cui “restare seduti” ad attendere che le cose cambino, che “i grandi” facciano qualcosa per loro.
Speranza nel senso di fiducia e impegno in direzione di un miglioramento, che certamente avverrà (anche se non sappiamo quando).

Gli adolescenti vedono tutto o bianco o nero. In questo momento “solo nero”.

Sta a noi, quindi, far loro cogliere le sfumature, aiutarli a dare un senso a questa attesa, fatta però di “azione” verso uno scopo.
Sta a noi sostenerli, affiancarli, motivarli a non mollare… Perché stavolta il peso da portare è troppo pesante e da soli non ce la fanno.