Mio figlio non si decide a scegliere la facoltà universitaria. Come lo aiuto?

Uno dei momenti più difficili per chi ha figli, che hanno appena terminato la maturità e non hanno idea di che cosa fare della propria vita, è “stare a guardare”.

Lo so che è un modo di dire con un’accezione negativa, ma che cosa significa in sostanza?

Vuol dire “aspettare che i tempi maturino”, “tener d’occhio una situazione per vedere come si evolve”.

Mi rendo conto che sia difficile e che voi genitori abbiate voglia di aiutare vostro figlio a scegliere o sentiate l’obbligo di intervenire per spingerlo a decidere o siate in ansia per lo stato di confusione o di vuoto che vostro figlio/a ha in questo momento sul suo futuro.

Lo vedete disorientato e l’istinto vi spinge a volerlo “indirizzare” nella scelta universitaria.

Lo vedete “perso” e l’amore che gli volete, vi spinge ad intervenire.

E in che modo lo fate?

Un bombardamento quotidiano della stessa domanda:
“Allora, hai deciso che cosa fare? Perché le iscrizioni ai test universitari hanno una scadenza!”.

E la risposta di vostro figlio è – più o meno – questa:
“Ma non lo so! Non ci capisco niente! Non riesco a capire ORA cosa voglio fare!”.

E qui s’innesca una sorta di psicologico ricatto, ovvero: “Guarda che se non ti decidi in tempo e non vai all’università, io non ho nessuna intenzione di mantenerti lì a far niente! O vai all’università o vai a lavorare!”.

Beh, conosco una ragazza che l’ha presa sul serio questa “minaccia” post diploma e, rendendosi conto di non saper proprio che cosa studiare, ha scelto di prendersi tempo e… si è trovata nel giro di due mesi un lavoro di receptionist.
Certo che non era il lavoro che desiderava svolgere nella vita, ma le è servito per fare chiarezza dentro di sé e, dopo due anni, trovare la sua strada e ricominciare a studiare, più convinta e motivata che mai.

Che cosa vi sto dicendo?

Riflettete bene, se volete aiutare vostro figlio, e affiancatelo facendogli sentire che ci siete, che siete lì per lui, che se lui ne ha bisogno, siete aperti ad ascoltarlo, a confrontarvi con lui.

Non date per scontato che “debba” frequentare ORA l’università: non abbiamo tutti gli stessi tempi di decisione e di scelta.
C’è chi è molto veloce e chi ha bisogno di più tempo, ma l’unica cosa che deve interessarvi è che “faccia la scelta giusta” per il suo futuro.

E se questo futuro, per lui, non ha ancora una forma… ben venga che tardi di uno o due anni la sua scelta. Nel frattempo, come ha fatto la ragazza di cui vi ho parlato prima, può trovare un qualsiasi lavoro per non dipendere del tutto dalla famiglia e non sentirsi un peso.

Volete davvero aiutarlo?

Domandategli – prima di tutto – se davvero desidera avere una laurea.

Non è una domanda banale, perché tutti i ragazzi che ho affiancato nell’orientamento universitario mi hanno detto:

“Eh, DEVO fare l’università, perché senza una laurea come lo trovo un lavoro?”.
In quel DEVO non c’è desiderio, ma obbligo.
E dove c’è obbligo, non c’è motivazione né scelta.

Il risultato è uno stato d’animo di rassegnazione, di apatia.
L’esatto contrario dell’entusiasmo e del desiderio di mettersi in gioco, di affrontare le difficoltà e gli ostacoli.

Che poi – se ci pensate bene – è un modo per “allenarsi” a come vogliono affrontare la vita.

Ve lo domando di nuovo… Cosa potete fare?

Lasciare che sia lui/lei a scegliere che cosa fare ORA.

Se vi dice che desidera proseguire gli studi, ma non ha le idee chiare, rendetevi disponibili a cercare con lui/lei tutte le informazioni sulle diverse facoltà e sugli sbocchi professionali di ciascuna.

Chiedetegli “perché” ci tiene a proseguire gli studi e non accontentatevi della risposta “bisogna avere una laurea”.

Fate in modo che sia lui/lei a iniziare le ricerche di informazioni e, se vi accorgete che ha difficoltà a reperirle, offrite la vostra disponibilità a farlo insieme.

Non sostituitevi a lui/lei.

Non siete voi che dovrete studiare!

E quando vi accorgete di non riuscire ad aiutarlo come desiderate… non disperate.

Ricordatevi che non siete soli: esistono figure come i Teen Coach, che sono in grado di affiancare vostro figlio e portarlo a fare chiarezza dentro di sé per scegliere autonomamente ciò che lo renderà felice nella vita.

Impegno e allenamento non contano solo nei tuffi!

Ieri stavo guardando in Tv le gare di tuffi ai Campionati mondiali di nuoto: adolescenti che si tuffavano in coppia da trampolini altissimi, con un controllo di sé che aveva dell’incredibile e una motivazione, una grinta degne di veri campioni.
Li guardavo ammirata…
Ce n’era uno di soli tredici anni…
Praticamente, uno studente della (ex) scuola media…

Pensate che alcuni sono stati penalizzati semplicemente per aver tenuto leggermente piegata la punta di un piede!

Pazzesco!

Al termine della prestazione, il loro allenatore li ha guardati con un’aria seria, severa e il volto corrucciato: nella prova successiva hanno dato l’anima!

Queste sono gare dove i ragazzi sanno che – per ottenere il massimo punteggio – devono essere “perfetti”!
E nessuno contesta questa rigidità nella valutazione da parte dei giudici: è normale!

Mi è venuto spontaneo tracciare un parallelo con la scuola
ed è una riflessione che voglio condividere con voi.

Provate a pensarci: quando a scuola un ragazzo fa un errore pari a “quella punta del piede leggermente piegata”, si aspetta di ricevere comunque un bel “10”!
E se quel voto non arriva, si lamenta – insieme ai genitori – per l’eccessiva severità e rigidità del docente nella valutazione.

E cosa accade?
Accade che al docente viene suggerito di valutare in base ad una percentuale
In questo modo lo studente arriva a meritare un “10” facendo ben più di un errore.

… ma nel mondo dello sport ad alto livello questo sarebbe ed è inconcepibile.

E come mai?

Forse che la “prestazione cognitiva” abbia meno valore rispetto a quella sportiva?

Perché – come atleta – posso accettare di dover raggiungere “la perfezione” e – come studente – “quella perfezione” mi appare assurda?

C’è qualcosa che non va, vi pare?

Cambiando poi canale e capitando durante la trasmissione del Telegiornale, ho sentito il giornalista che sottolineava con un certo sconcerto che

in Italia i giovani laureati sono solo il 28 %.

Vi starete domandando: “Ma che cosa c’entra con il discorso di prima sui tuffi e lo sport?”.
C’entra!

Perché nello sport i ragazzi danno per scontato di dover arrivare il più vicino possibile alla perfezione per avere ottimi risultati.
Nella scuola è l’esatto contrario, ovvero:

“Perché devo arrivare a dare il massimo?”.

Ecco quindi ciò su cui dobbiamo riflettere:

molti, moltissimi dei nostri ragazzi arrivano alla scuola superiore che “non sono allenati” a studiare, a stare fermi e concentrati sui libri un paio d’ore dopo le lezioni scolastiche.
E così, di fronte ai primi votacci, hanno delle crisi di autostima e perdono di motivazione: iniziano a mettere in dubbio sia la scelta della scuola sia le loro capacità.

In realtà è come se si presentassero sul trampolino senza essersi allenati!
E’ così semplice da capire.

Pertanto: se volete che i vostri figli siano tra quelli che si laureano, in quell’esclusivo 28 %, allora…

spronateli ad “allenarsi” ogni giorno, a tenere duro, a impegnarsi, a non mollare, ad accettare un brutto voto come stimolo a fare meglio.

Solo così diventeranno dei “campioni”!

Grazie al Teen Coaching, il rapporto con mio figlio è decisamente migliorato!

Sono la mamma di un ragazzo di 17 anni e vorrei portare la mia testimonianza riguardo al Teen Coaching, nella speranza di essere d’aiuto a qualcuno di voi.

L’anno scorso mio figlio Riccardo stava attraversando un periodo un po’  particolare a scuola: molto studio, ma scarsi risultati.

Tutto ciò creava in lui insicurezza e frustrazione.

Un giorno mi chiese di contattare Laura, di cui gli avevo parlato (essendomi approcciata anch’io in passato al Life Coaching).

Così non ho perso tempo e ho contattato Laura, che si è subito resa disponibile ad incontrarlo.

Partendo dal “ problema scolastico”, Riccardo ha affrontato man mano diverse tematiche che gli stavano a cuore ed è arrivato a compiere scelte importanti, come ad esempio sospendere l’attività agonistica – pur continuando ad allenarsi nello sport che pratica da 12 anni –  per porsi nuovi obiettivi.

Nel corso di questo percorso ho visto mio figlio “cambiare”.

La cosa che più di ogni altra si è resa evidente è stato  il cambiamento del nostro rapporto, che è diventato decisamente migliore: fatto di ascolto e comprensione reciproca.

Prima potevo definirlo conflittuale!

Ora Riccardo è più tranquillo, ascolta, riflette su ciò che gli si dice, accetta consigli, è più socievole, più gioioso…

Tutte cose impensabili fino ad un anno fa.

È maturato!!!

I benefici del Teen Coaching non si sono limitati solo ai rapporti interpersonali, ma si sono estesi anche alla scuola.

Ha cominciato a pensare al suo futuro e a costruirlo, ponendosi obiettivi scolastici impegnativi: ha infatti vinto una borsa di studio che lo porterà presto a frequentare il 4° anno di liceo in Argentina!

Sicuramente il Coaching gli ha permesso di conoscere meglio le sue potenzialità e lui ha imparato a sfruttarle.

Il percorso fatto non è stato sempre facile, ma la professionalità e l’aiuto costante di Laura hanno portato ad ottimi risultati.

Riccardo ha trovato in lei una guida, un’alleata con cui confrontarsi e aprirsi, parlando liberamente di sé , di ciò che lo preoccupava o lo faceva gioire.

Consiglierei ad ogni genitore di far vivere un’esperienza del genere al proprio figlio/a

Laura si è confermata una professionista straordinaria, che sa come interloquire con un adolescente, facendolo esprimere al meglio!!!

Grazie di cuore, Coach Gazzola!

Con affetto e stima,

Susanna.

Elimina le “etichette” e l’ansia scomparirà!

Voi quante “etichette” avete?

Già, perché tutti finiamo per essere le “etichette” che la gente ci ha appiccicato addosso o che noi stessi ci siamo appioppati da soli.

La verità, però, è che non lo siamo veramente.

Lasciarci catturare da queste etichette significa sentirne tutto il peso.

Dov’è la libertà?

Oh, certo, ci fa stare bene quando ci dicono che siamo “bravi” in qualcosa.
E’ gratificante, non c’è dubbio.
Solo che quando iniziano a dircelo e noi ci crediamo, facciamo in modo di essere sempre all’altezza di quella aspettativa (che magari non è neanche la nostra).

Il “come sei bravo” diventa un’etichetta che ci richiederà sempre più impegno, sempre più sforzo.
E l’ansia di “non essere all’altezza” inizierà a comparire.

Pensate a scuola, quando uno studente ottiene dei voti eccellenti e tutti i compagni lo etichettano come “genio”.

Pensate con quale ansia affronterà le verifiche e le interrogazioni.

Pensate a quante volte i compagni gli chiederanno: “Quanto hai preso?”.
E pensate a quale peso sul cuore avrà quando, sbagliando una verifica, dovrà rispondere ai compagni curiosi: “Insufficiente”.

Il ragionamento vale anche al contrario, ovvero quando ci dicono che siamo negati per qualcosa.

Eccola lì un’altra bella etichetta!

E se lasciamo che ce la mettano addosso, non combineremo mai nulla.

Cosa dobbiamo fare allora?

Mandare in frantumi l’etichetta, qualunque essa sia!
Significa che non dobbiamo più identificarci con quella.

Basta “sono bravo” e “sono negato”.

In un dato momento qualcuno ci ha visti “bravi” o “vere frane”, e va bene.

Ma noi siamo molto altro e cambiamo continuamente.
Questo è il bello!

Perciò cerchiamo di essere consapevoli di come siamo in ogni momento, tenendo conto che ogni momento è diverso e noi pure.

Viviamo istante per istante, senza la pretesa di rispondere sempre al ruolo o all’etichetta che ci hanno messo.

Solo così elimineremo le nostre ansie.

Solo così torneremo a sorridere.

Compiti estivi: utili o dannosi?

Nelle ultime settimane mi sono confrontata con diversi genitori, che sostenevano l’utilità di non lasciare i bambini/ragazzi senza far nulla per tre mesi, ma sottolineavano la necessità che questi compiti non fossero “esagerati”.
Alcuni, ad esempio, proponevano soltanto la lettura di romanzi scelti ad hoc.

E voi?
Siete a favore o contro i compiti estivi?

Molti pediatri sono “contro”, perché sostengono che le vacanze estive servano per “staccare la spina” dalle fatiche e dallo stress accumulati durante l’anno.

Dicono che il sovraccarico di lavoro durante l’estate potrebbe risultare controproducente.
Il Prof. Italo Farnetani, noto pediatra, a questo proposito sostiene che i bambini “per essere in forma a settembre devono dimenticare la scuola” perché “lo stress abbassa le difese ed espone alle malattie”.
Per questo il professore è contrario ai compiti delle vacanze.

Tra l’altro, alcune ricerche recenti dimostrano che la maggior parte degli studenti svolge i compiti a giugno e solo il 30% a luglio. Ad agosto, praticamente, nessuno.

E allora – visto che vengono assegnati per “non dimenticare” – a che cosa servono?

Farnetani è convinto che sia meglio che “bambini e ragazzi stiano in mezzo alla gente e all’aperto”. Secondo lui, poi, “non è vero che le vacanze degli studenti italiani siano troppo lunghe” perché “in questo periodo si possono apprendere cose interessanti, come la storia della propria famiglia” grazie al racconto dei nonni e degli oggetti tramandati.

Quindi i compiti sono realmente dannosi?
Pare di no.

Una ricerca della Johns Hopkins University ha dimostrato che il 66% dei docenti nel mese di settembre impiega tra le 3 e le 4 settimane di ripasso per “riportare la classe ai livelli di prima” e non posso che confermarlo.

I ragazzi impiegano quasi un mese per riprendere il ritmo e fanno molta fatica: lo stress va subito alle stelle.

I compiti, quindi, se impegnano un’ora al giorno, non possono far male.

L’importante è che abbiano un senso: che non siano un mero esercizio, ma che diano ai bambini e soprattutto ai ragazzi il modo di sperimentare l’AUTONOMIA, ovvero la possibilità di gestire la propria libertà con responsabilità.

Diventare “autonomi” vuol dire imparare a gestire il tempo, le pause, comprendere le consegne degli esercizi, scegliere il luogo adatto a concentrarsi… insomma, imparare a “fare da soli”.

Per questo motivo i genitori non dovrebbero essere coinvolti nello “svolgimento” dei compiti. Semmai potrebbero controllare a fine giornata che siano stati eseguiti correttamente (come ho spiegato in un mio video sui “compiti estivi”), per evitare che i i figli si “allenino” a sbagliare quel tipo di esercizio.

E a proposito di LETTURA

vorrei sottolineare che “leggere” stimola lo sviluppo dell’immaginazione e amplia le conoscenze.
Apre la mente a nuovi mondi e fa vivere avventure senza correre alcun rischio.

Scegliere quindi un bel libro da portare in vacanza, seguendo i propri gusti e interessi, serve a coltivare il “piacere della lettura”, senza fretta né scadenze a breve.

I figli non nascono razzisti: lo diventano. Ecco come evitarlo!

Sapete quanti ragazzini dicono “Io non sono razzista”, ma poi preferiscono non stare in banco con un compagno di colore? Quanti evitano di trascorrere l’intervallo con il compagno indiano e quanti non lo inviterebbero mai a casa loro per fare i compiti o giocare insieme?
Tantissimi! Direi la maggior parte.

Secondo voi qual è la motivazione?

Gli esseri umani non nascono razzisti, perciò dobbiamo davvero riflettere.

Se si tengono alla larga da chi non è “uguale” a loro… dobbiamo davvero farci delle domande.

Ascolto spesso da parte di genitori la frase: “Ah, ma io e mio marito non siamo mica razzisti! Non capisco come mai mio figlio non voglia stare in banco con il tal dei tali!” (che guarda caso è straniero).
Poi, durante momenti di dibattito in classe,

il ragazzino esce con frasi del tipo: “Ci rubano il lavoro”, “Sì, ce ne sono anche di buoni, ma la maggior parte sono delinquenti”, “Vengono qui e pretendono tutto”.

Lo so, sono le solite frasi fatte, ma… da qualche parte le avranno pur ascoltate.

Credo che oggi più che mai si debbano educare i figli a saper distinguere il bene dal male, il vero dal falso, l’onesto dal disonesto, il giusto dall’ingiusto, l’apparenza dalla verità.

Quando parlo ai ragazzi, amo sottolineare che

“veniamo tutti dallo stesso stampo: quello umano”

e li guido a immaginare che è come se qualcuno prendesse uno stampo (tipo la “formina per giocare con la sabbia”) e riproducesse tante figure per poi abbellirle, dipingendole di colori diversi, curando i dettagli in modo da avere “stampi originalissimi” (con colori di occhi e capelli diversi).

La diversità può davvero essere una ricchezza, perché accogliere senza paura chi è diverso da te è un modo per allenarsi ad avere una mente aperta, libera da pregiudizi e catene.

In un documentario legato all’Intercultura mi ha colpita una frase molto bella:

“Siamo tutti ospiti su questa Terra”

ed è profondamente vero.
Non possediamo la Terra: oggi viviamo in un posto e domani potrebbe capitare di vivere in un altro. E ai ragazzi d’oggi è possibile che succeda.
Dunque, cresciamoli “aperti” al mondo, facendo loro capire cosa c’è di buono.

E come possiamo fare?

  • Prendiamoci un lungo momento di riflessione con noi stessi, per analizzare ciò che finora abbiamo detto davanti ai figli: commenti, giudizi che sono “scappati fuori” di fronte a certe notizie dei TG.
  • Scegliamo (coinvolgendo anche il partner) che cosa dire davanti ai figli e che cosa censurare, perché frutto di uno sfogo, di una reazione a caldo, di una arrabbiatura.
  • Avviciniamo i figli a nuove culture, magari partendo con l’assaggiare sapori diversi (non solo quelli “di moda” come il sushi).
  • Cerchiamo letture che raccontino le storie vere di bambini che hanno rischiato la vita per salvarsela (ce ne sono tantissime). Leggiamo queste storie ad alta voce, insieme a loro e al resto della famiglia, commentando e riflettendo.
  • Guardiamo film che parlino di paesi lontani e di culture diverse. Film di storie vere a lieto fine, dove i giovani protagonisti superano ostacoli inimmaginabili per noi pur di poter studiare, di ricongiungersi alla loro famiglia, di vivere in un paese senza la guerra.

Iniziamo così: in modo semplice e a costo zero.
E in futuro, se le nostre finanze lo permetteranno, potremo anche fare un viaggio all’estero autogestito o mandare nostro figlio a fare un’esperienza formativa all’estero, anche se solo per una o due settimane. Qualcosa che lo avvicini a chi è diverso da lui.
Perciò… niente resort di lusso o college esclusivi…
Ma questo… chi vuole conoscere veramente il mondo, lo sa già.

Vuoi comunicare il tuo disagio? Costruisci la frase perfetta!

Se chi si relaziona con noi è puntuale, attento e disponibile… tutto va bene: i nostri bisogni vengono ascoltati senza neanche esprimerli.
In questo caso è facile comunicare con l’altro, perché c’è perfetta armonia.

Ma cosa succede se chi deve collaborare con noi non ci ascolta?

Sicuramente ci sentiamo incompresi, arrabbiati, e viviamo un penoso malessere.
Sbraitare non serve a nulla, anzi! A volte fa più danno! E allora…

Come comunicare in modo positivo il nostro disappunto o disagio?

Come riuscire a stare calmi e a non rimuginarci sopra per il resto della giornata?
Come essere soddisfatti per aver fatto presente ciò che ci ha irritati?

Un modo pratico ed efficace c’è!

Mettiamo da parte l’impulsività e impariamo a “costruire” la frase da comunicare, mettendo insieme queste tre parti:

  • Quando tu fai così… (spiegare ciò che ci ha dato fastidio)
  • Io mi sento… (esprimere l’emozione provata)
  • Perché… (spiegare il motivo, la causa per cui ci siamo irritati)

Facciamo degli esempi:

La cena è pronta e l’avete appena servita in tavola. Chiamate vostro figlio, che è in stanza, e lui arriva con 10/15 minuti di ritardo. Al posto di fargli la solita ramanzina, siate molto fermi e brevi:

  • Quando tu arrivi in ritardo, dopo che ti ho chiamato più volte
  • io mi innervosisco
  • perché il cibo si fredda e soprattutto non mangiamo insieme nell’unico pasto che possiamo condividere.

Oppure:

La stanza di vostro figlio è terribilmente in disordine: vestiti sul letto, sulla sedia e per terra, zaino rovesciato e buttato in un angolo, libri e quaderni ovunque, scarpe spaiate in giro per la camera. Gli chiedete di riordinarla prima di sera, ma quando è l’ora di cena, vi accorgete che lui non l’ha fatto.

Al posto di iniettare i vostri occhi di sangue e attaccarlo con le peggiori frasi… respirate e limitatevi a:

  • Quando tu non riordini la tua stanza, dopo che te l’ho chiesto
  • io mi infurio e mi deprimo
  • perché mi fai sentire come una cameriera e per me è una mancanza di rispetto.

E se le scuse di vostro figlio vi sembrano poco sincere o credibili, aggiungete:

  • Quando mi rispondi così
  • mi innervosisco ancora di più
  • perché per me la sincerità è importante.

Ecco! Se strutturerete la frase in questo modo,

potrete spiegare con poche parole il vostro disagio e le vostre emozioni in modo che vengano comprese.

Non dico che sarà semplice, ma è una valida alternativa ai lunghi e inutili discorsi che poi nessuno ascolta, sia che si tratti di un figlio sia che si tratti di un collega, del partner, ecc.

Provateci e fatemi sapere!

Sei sicuro di non essere “dipendente” dallo smartphone? Meglio verificare!

Chi di voi non ha un cellulare, alzi la mano!
E di sicuro lo usate per chattare, guardare video, ascoltare musica, giocare…

Ma per quanto tempo al giorno?

Alcuni dodicenni di una scuola di Brescia hanno condotto una ricerca sull’uso dello smartphone e poi hanno realizzato un volantino con una serie di indicazioni utili a non ammalarsi.

Già, perché di cellulare ci si può ammalare e anche gravemente.

Pensate che i pediatri italiani vorrebbero vietare l’uso del cellulare ai bambini al di sotto dei 10 anni. Hanno spiegato, infatti, che

iniziare ad usare da piccoli il cellulare e farlo per un’ora intera al giorno, può portare a perdere concentrazione e memoria, a dormire poco e male, ad essere più aggressivi con gli altri e… ad apprendere di meno.

Ci sono poi ragazzi che, se non sono costantemente connessi, vengono assaliti da una paura incontrollata che li fa stare male.

Ecco, è una vera e propria “dipendenza”, ma loro non se ne rendono conto, finché… il loro corpo inizia a mandare dei segnali.

Sono sintomi di questa “malattia”, che si chiama “nomofobia”, e che si manifesta quando non si può usare lo smartphone per un certo periodo di tempo, perché non c’è il segnale o la batteria è scarica o è finito il credito.

Queste persone, ragazzi e adulti, allora iniziano a sentire il cuore accelerato, ad avere il fiato corto, a sentire nausea.
E’ una vera e propria ansia che li assale, fino a trasformarsi in attacco di panico.

Allora come possiamo fare per non cadere in questa trappola?

Usare il cellulare con intelligenza, cioè non portarcelo dappertutto: spegnerlo quando siamo a tavola con la famiglia e non usarlo quando siamo fuori con amici o a scuola o agli allenamenti.

Possiamo averlo con noi, ma capire quando è il caso di usarlo e quando no.

Se stiamo studiando o dobbiamo dormire, meglio spegnerlo; se vogliamo giocare, fermiamoci dopo mezz’ora.

Se non siete sicuri di riuscire a farlo, vuol dire che non siete “pronti” ad avere un cellulare. Pensateci!

 

 

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como”  nel febbraio 2018.

Se vuoi bene a tuo figlio, non giustificarlo sempre.

Un ragazzo di vent’anni mi confida di aver assunto cocaina per “allontanarsi dai suoi problemi”:
il padre lo giustifica perché “è solo, non ha fratelli e io e sua madre abbiamo appena divorziato”.
Un adolescente rischia di perdere l’anno scolastico a causa delle assenze accumulate: i genitori si lamentano, ma lo giustificano, dicendo che “non si sentiva mai pronto all’interrogazione o alle verifiche”.
Un undicenne al parco alza le mani su un ragazzino che l’ha pesantemente insultato. Entrambe le madri giustificano i figli, l’una dicendo che è stata una reazione naturale, visto che è stato provocato, e l’altra minimizza la pesante offesa lanciata dal proprio figlio, perché “stava scherzando”.
Ad un corso di formazione, una donna si lamenta perché i due figli adulti non se ne vogliono andare di casa e se ne stanno a bighellonare tutto il giorno, ma quando la trainer le indica cosa fare per tagliare il cordone ombelicale, lei risponde: “Be’, ma come posso fare così… Come fanno a mantenersi? Non possono mica lavorare otto ore al giorno per guadagnare una miseria!”.

Di esempi del genere potrei farvene a centinaia…

Ma il succo di tutto è che molti ragazzi vengono sempre giustificati dai genitori e magari pure dai nonni e da certi insegnanti o allenatori.

Viene quindi spontaneo domandarsi:
“Ma giustificare sempre e comunque i figli, va bene?”.

Certamente no!

Anzi, è pure pericoloso per la loro crescita, perché non capiranno mai che cos’è un limite né impareranno che esistono dei confini. E che dire della morale e delle regole?

I figli hanno bisogno di avere dei “paletti” entro i quali muoversi serenamente.

Devono conoscere le conseguenze delle loro azioni e spetta agli adulti metterli di fronte a ciò.

Chi giustifica sempre un figlio… non gli vuole bene!

Sceglie il quieto vivere, ovvero una posizione di comodo, che regala un’apparente serenità in famiglia, ma non fa crescere nessuno.

I genitori hanno il dovere di responsabilizzare i figli e questo è possibile se spiegano loro che cosa fare e che cosa no.

Non si tratta di colpevolizzare i figli per come “sono”, ma per ciò che hanno fatto di sbagliato.

Non bisogna quindi dire: “Tu sei un disastro”, ma “Tu ti sei comportato male, per questo e quest’altro motivo”.
Diventa quindi necessario spiegare ai figli in che cosa hanno sbagliato e dimostrare loro che è possibile rimediare, ma soltanto dopo aver compreso i propri errori.

Sono i genitori al timone e tocca a loro definire i limiti.

Non possono farlo i figli, perché non sono adulti e hanno bisogno di essere guidati con mano sicura, giusta e ferma.

I genitori devono sì sforzarsi di “comprendere” perché un figlio si è comportato male, ma questo non vuol dire giustificarlo. Per essere autorevoli devono imparare a dire “no” ai figli, senza paure o dubbi.

Devono aiutare i figli a riflettere sugli errori commessi e sulle conseguenze di certe azioni e farlo con calma, senza gridare, né accusare.
I figli, d’altro canto, devono capire di aver sbagliato (non di essere sbagliati) ed essere pronti a non ripetere l’errore.

Ecco come avere dei figli “positivi”!

Quante volte ci stupiamo di fronte a certi atteggiamenti rinunciatari e timorosi dei nostri figli?

Vorremmo vederli sicuri di sé, grintosi, aperti a cogliere le piccole o grandi sfide della vita e invece li vediamo impauriti e spaventati all’idea di un insuccesso a tal punto da non provarci nemmeno.

“Tanto lo so, mamma, la verifica andrà male come la volta scorsa!”.
“A che serve tutto questo studio? Tanto poi va male!”.

Abbiamo ascoltato parecchie frasi simili a queste e magari l’istinto ci ha spinti a replicare:
“Ma io non so dove prendi tutta questa negatività!”.

Eh! Bella osservazione!

Ma cosa possiamo fare per avere figli “positivi”?

Intanto chiariamo che “positivi” non significa guardare alla realtà in modo distorto, con gli occhiali rosa, in modo irrealistico.

Positivi significa “ottimisti”, ovvero capaci di guardare il bicchiere mezzo pieno: fiduciosi nelle proprie capacità e sulla buona riuscita delle proprie azioni, oltre che di buona compagnia e socievoli.

Praticamente, figli capaci di pensare positivo, di vedere il lato buono della vita. Figli che guardano alla vita con il desiderio di vivere esperienze positive.

No, non stiamo parlando di extraterrestri!

Avere figli così è possibile! Ma molto dipende da noi.

Se siamo di quegli adulti che si alzano al mattino cupi e già si lamentano per la giornata che avranno davanti, con tutte le rogne di cui occuparsi al lavoro e tutti gli impegni a cui far fronte, be’ non saremo un gran bell’esempio! Non è questione di fingere, ma di non alimentare la negatività.

Lamentarsi è un’abitudine e, come tale, può essere modificata.
Se siamo genitori ottimisti, anche i nostri figli lo saranno!
Il primo “lavoro”, quindi, è quello su noi stessi.

Facciamo piccoli cambiamenti:

  • Al mattino evitiamo di lamentarci perché dobbiamo andare al lavoro.
    Se è possibile, facciamo colazione insieme a loro (magari alzandoci un pochino prima del solito) e parliamo di qualcosa di positivo (come, ad esempio, di chissà quali nuove cose interessanti impareranno a scuola).
  • Alla sera, a cena, possiamo dedicarci a “il racconto della giornata”, ovvero il racconto di ciò che abbiamo vissuto, con la regola di trovare “3 cose positive” da evidenziare.
  • Prima di dormire, possiamo leggere loro una bella storia a lieto fine.
    (Ci sono libri per bambine, ad esempio, che raccolgono storie di “femmine” che sono riuscite a realizzare i propri sogni, diventando scienziate, artiste, musiciste… Tutte storie positive, quindi).

Buone pratiche che fanno bene a loro, ma anche a noi!

Un’altra cosa importante, ma che comporta una certa attenzione da parte nostra, è legata al linguaggio e ai messaggi che invia al cervello.

Dobbiamo sforzarci di far caso alle frasi che i nostri figli sono soliti usare.

Se dicono spesso: “Non ce la faccio” (es. “Mi aiuti, mamma? Non ce la faccio”), “Ma io non sono capace!”, “Non ci riesco”, “Non sono bravo a calcio” o “In matematica sono negato!”, “In scienze non capisco niente!”, dobbiamo intervenire e modificare la loro frase in:

  • “Posso farcela!”
  • “Ci provo” o “Voglio provare a …”.
  • “Sono bravo in…”.

Questo li aiuterà a essere più positivi e a non generalizzare in negativo.

Se, ad esempio, dicono che il loro disegno fa schifo, facciamo notare loro che non è così: troviamo gli elementi positivi, senza ingannarli o illuderli. Ad esempio: “Del tuo disegno mi piace molto questo elemento” (troviamo un dettaglio che apprezziamo).

E per quanto riguarda noi, stiamo attenti alle parole che diciamo loro, soprattutto quando siamo irritati:

“Sbagli sempre!”, “Possibile che non ne fai una giusta?”, “Non cambi mai!” sono generalizzazioni che fanno danni.
Meglio essere più precisi e dire:
“In questa cosa hai sbagliato, ma puoi migliorare” oppure
– “Stavolta non è andata tanto bene, proviamo in un’altra maniera!”.

In questo modo, i bambini capiscono quello che non va bene, ma il nostro intervento è costruttivo, non distruttivo.

Quindi non si tratta di dire a nostro figlio delle falsità, ma di incoraggiarlo a “parlarsi” in modo diverso, perché i messaggi che manderà al suo cervello gli permetteranno di affrontare in modo positivo le difficoltà e gli ostacoli della vita.

Allora insegniamogli a farsi i complimenti per ciò che riesce a fare:
– “Sono stato bravo”,
– “Sono capace di…”,
– “Mi voglio bene”.

Deve rendersi conto di avere le capacità per fare di tutto, ma sapere che per farlo bisogna impegnarsi, concentrarsi e mirare all’obiettivo.

Aiutiamolo allora e stimoliamolo con queste frasi, soprattutto quando dubita di sé:

  • “Ho fiducia in te e nelle tue capacità”,
  • “ti voglio bene e ce la farai”,
  • “lo sai fare come gli altri, devi aver fiducia”
  • “la vita è fatta anche di insuccessi, quindi se questa volta è andata così la prossima volta andrà meglio”,
  • “si è capaci anche se qualche volta si sbaglia”.

Per riuscire a guardare alla vita con positività, nostro figlio deve imparare a dare il giusto peso agli eventi ed è tutta questione di “allenamento”.

Guardare alla realtà senza negativizzare tutto richiede continuità: va fatto tutti i giorni.
Magari iniziando dal buon umore, che trasmette serenità, speranza e allenta le tensioni.

Cerchiamo dunque di “sorridere” più spesso: i nostri figli (e non solo) ne godranno tutti i benefici.

Non illudiamoci però: i nostri figli non diventeranno positivi “per magia” e da un giorno con l’altro!

Dobbiamo educarli noi a questo atteggiamento: noi, che siamo le persone più influenti nella loro vita.

E a chi si lamenta, dicendo: “Anche questo devo imparare?!?”, rispondo che fare il genitore è un duro lavoro da svolgere tutti i giorni e, come tutti i lavori, prevede un continuo apprendimento se si desidera migliorare.

Il potere che ne deriva è enorme: influenzare l’intero futuro dei propri figli.