Con i figli… “cogli l’attimo” e non te ne pentirai!

Due settimane fa ero sul lago: leggevo un bel libro, ammirando di tanto in tanto il paesaggio.
Proprio a pochi metri da me, ad un certo punto, vedo passare una vecchia barca di legno: un uomo anziano, con la pelle abbronzata e i capelli bianchi mossi dal vento, remava stando in piedi e facendo una certa fatica.

La barca a remi procedeva lentamente: a prua, un bambino di otto-nove anni stava seduto e rilassato, contemplando il lago.

“Vieni qui, ora! Ti insegno come fare” gli dice il vecchio.
“Ma nonno, sono troppo piccolo!” si affretta a rispondere il bambino.
“Non è vero, io ho imparato alla tua età” commenta tranquillo il nonno.
“Ma perché DEVO impararlo adesso?” chiede il nipote.
“Perché io non so quanto riuscirò ancora a remare e tu devi saperlo fare” spiega l’uomo.
“Sì, nonno, ma PROPRIO ADESSO?” si lamenta il ragazzino.
“Certo! Perché GIA’ mi sento un po’ stanco…” risponde il nonno con tono affettuoso.

Volete sapere com’è andata a finire?

Ho visto il bambino mettersi ai remi, guidato dalle mani e dalle indicazioni del nonno, e remare… Remare fino a far scivolare veloce sull’acqua la barchetta.

Volete sapere che espressione aveva sul viso il bambino?

Il suo sguardo, inizialmente concentrato e serio, ha poi mostrato tutta la soddisfazione e la gioia di esserci riuscito.

Non è una storiella inventata, questa.
E’ una storia vera, di quelle che chiunque può “vedere” se interessato e incuriosito dal comportamento umano.

Sapete perché ve l’ho raccontata?
Perché… CARPE DIEM, come direbbe il bravo professore del film “L’attimo fuggente”.

Dobbiamo saper cogliere le occasioni per insegnare qualcosa ai nostri figli, nipoti, perfino al partner.

Non si tratta di “mettersi in cattedra” e impartire una lezione. E chi la ascolterebbe?!

Nelle molteplici occasioni dobbiamo saper scegliere il momento migliore, quello che si presta meglio a darci una mano a trasmettere un valore, una tradizione, un ricordo, qualcosa di pratico (come remare).

Non facciamo l’errore di rimandare… “Tanto poi c’è tempo!”.
Il tempo non c’è!
Ecco perché “carpe diem”: cogli l’attimo!

Quel nonno è stato eccezionale a cogliere l’attimo.
Se avesse rimandato al giorno dopo, le condizioni non sarebbero state le stesse. E magari il nipote non l’avrebbe assecondato.
Ma le sue parole, il tono, il significato implicito del “non sarò qui vicino a te per sempre”… hanno colpito il nipote, che ha deciso di provare.

Quel nonno ha dato una lezione a tutti noi, perché in una frase ha racchiuso un valido insegnamento:

con i bambini e coi ragazzi bisogna spesso inventarsi una “buona scusa” per far sì di essere ascoltati.
Importante è anche dare un tempo, “ora” e non “la prossima volta”.

Dobbiamo cogliere tutta la bellezza di saper coinvolgere i figli, facendoli sentire utili, persino necessari in alcuni momenti.
E loro ci seguiranno, senza protestare, perché si sentiranno importanti, valorizzati.
Come ad esempio una bimba di 5 anni che ho visto accompagnare, tenendola per mano, la nonna che si reggeva col bastone…

Quanta tenerezza, quanta disponibilità e amore in quel gesto.

Ma i bambini, i ragazzi sono così: capaci di “dare” tantissimo e imparare tantissimo.

Sta a noi “cogliere l’attimo” e domandarci:

“Quanto è importante per me trasmettere a mio figlio ciò che so, ciò che amo, ciò in cui credo?”…

e il gioco è fatto!

Smettiamo di essere delle “isole” e guadagniamo in serenità!

“E’ tutto uno schifo!”, “Va tutto male!”, “Non funziona niente!”, “E’ colpa della società!”…
Quante volte ascoltiamo o produciamo continui mugugni fini a se stessi?

La verità è che siamo diventati delle isole: ciascuno per sé e nessuno per tutti!

Abbiamo frainteso il suggerimento di “pensare un po’ a noi stessi” e l’abbiamo trasformato in “prima io e poi gli altri”.
Questo – a sua volta – si è tradotto in mancanza di attenzione, di ascolto, di rispetto per gli altri.

La saggezza insita nel concetto “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri” è diventata “prima di tutto viene la mia libertà – ovvero tutto ciò che voglio fare – e gli altri si arrangino”.

In tutta sincerità, mi fa male scrivere questa riflessione, che è frutto di anni di osservazione di questa “nuova” umanità, perché io non mi sento e non sono così.
Tuttavia, si sa, bisogna necessariamente generalizzare, anche se questa esigenza mi fa venire l’orticaria!

Per cambiare le cose, però, questa pseudo-filosofia non funziona.
Basta guardare come ci siamo ridotti…: imbronciati, cupi, infelici.

Non è mettendosi sempre ed esclusivamente al centro di tutto che si diventa felici: esistono anche gli altri.

Già: gli altri! Quelli per i quali si sprecano le critiche, i giudizi, le cattiverie.
E di solito si tratta di critiche “distruttive” e non costruttive.
E’ sufficiente leggere i commenti sui social per rendersene conto.
L’intento è demolire l’altro: la sua (buona) immagine, la sua (seria) professionalità…

Si distrugge l’altro per emergere e, la cosa peggiore è che lo si fa davanti a chi sta crescendo, ai figli, che così imparano immediatamente a fare lo stesso.

“Ma cosa ci possiamo fare se il mondo va così?”.

Ehhh, troppo facile risolvere la questione in questo modo, con un “me ne lavo le mani”, mi arrendo, non è affar mio!

Le cose si possono cambiare. Noi possiamo cambiare.

“Di impossibile non c’è niente, se stiamo uniti” dice il personaggio di un romanzo di Andrea Vitali. Ed è così!

Iniziamo dal nostro vivere in famiglia:

  • facciamo sentire ai figli che papà e mamma sono “uniti”, che si vogliono bene e si trattano con rispetto. Eliminiamo quindi le liti e le discussioni davanti ai figli, soprattutto le critiche offensive e le esclamazioni con parolacce.
  • Alimentiamo in casa la bellezza di “essere uniti” in famiglia: l’importanza di andare d’accordo, di trovare soluzioni che accontentino un po’ tutti, che regalino serenità.
  • Valorizziamo i componenti della famiglia: tutti e non solo chi ha più affinità con noi.
  • Usiamo un linguaggio positivo, che incoraggi ad affrontare i problemi, le sfide e stimoli ad agire (piuttosto che a criticare e basta).
  • Insegniamo ai figli la ricchezza di aiutare chi è in difficoltà (magari dando una mano ad un compagno che viene un po’ isolato per la sua timidezza).
  • Diamo il buon esempio come adulti, trattando con gentilezza le altre persone e dedicando loro un po’ della nostra attenzione.

Se ci impegneremo a mettere in pratica quotidianamente questi semplici comportamenti, allora sì che cambieremo le cose.

Allora sì che smetteremo di essere e di crescere delle “isole”.

E col passare del tempo, questa “unione” balzerà agli occhi degli altri e sarà d’esempio a qualcuno che deciderà di fare lo stesso.

E l’input sarà inarrestabile… così come i suoi meravigliosi risultati,

perché smettere di essere delle aride “isole” può solo regalarci gioia e serenità.

Impegno e allenamento non contano solo nei tuffi!

Ieri stavo guardando in Tv le gare di tuffi ai Campionati mondiali di nuoto: adolescenti che si tuffavano in coppia da trampolini altissimi, con un controllo di sé che aveva dell’incredibile e una motivazione, una grinta degne di veri campioni.
Li guardavo ammirata…
Ce n’era uno di soli tredici anni…
Praticamente, uno studente della (ex) scuola media…

Pensate che alcuni sono stati penalizzati semplicemente per aver tenuto leggermente piegata la punta di un piede!

Pazzesco!

Al termine della prestazione, il loro allenatore li ha guardati con un’aria seria, severa e il volto corrucciato: nella prova successiva hanno dato l’anima!

Queste sono gare dove i ragazzi sanno che – per ottenere il massimo punteggio – devono essere “perfetti”!
E nessuno contesta questa rigidità nella valutazione da parte dei giudici: è normale!

Mi è venuto spontaneo tracciare un parallelo con la scuola
ed è una riflessione che voglio condividere con voi.

Provate a pensarci: quando a scuola un ragazzo fa un errore pari a “quella punta del piede leggermente piegata”, si aspetta di ricevere comunque un bel “10”!
E se quel voto non arriva, si lamenta – insieme ai genitori – per l’eccessiva severità e rigidità del docente nella valutazione.

E cosa accade?
Accade che al docente viene suggerito di valutare in base ad una percentuale
In questo modo lo studente arriva a meritare un “10” facendo ben più di un errore.

… ma nel mondo dello sport ad alto livello questo sarebbe ed è inconcepibile.

E come mai?

Forse che la “prestazione cognitiva” abbia meno valore rispetto a quella sportiva?

Perché – come atleta – posso accettare di dover raggiungere “la perfezione” e – come studente – “quella perfezione” mi appare assurda?

C’è qualcosa che non va, vi pare?

Cambiando poi canale e capitando durante la trasmissione del Telegiornale, ho sentito il giornalista che sottolineava con un certo sconcerto che

in Italia i giovani laureati sono solo il 28 %.

Vi starete domandando: “Ma che cosa c’entra con il discorso di prima sui tuffi e lo sport?”.
C’entra!

Perché nello sport i ragazzi danno per scontato di dover arrivare il più vicino possibile alla perfezione per avere ottimi risultati.
Nella scuola è l’esatto contrario, ovvero:

“Perché devo arrivare a dare il massimo?”.

Ecco quindi ciò su cui dobbiamo riflettere:

molti, moltissimi dei nostri ragazzi arrivano alla scuola superiore che “non sono allenati” a studiare, a stare fermi e concentrati sui libri un paio d’ore dopo le lezioni scolastiche.
E così, di fronte ai primi votacci, hanno delle crisi di autostima e perdono di motivazione: iniziano a mettere in dubbio sia la scelta della scuola sia le loro capacità.

In realtà è come se si presentassero sul trampolino senza essersi allenati!
E’ così semplice da capire.

Pertanto: se volete che i vostri figli siano tra quelli che si laureano, in quell’esclusivo 28 %, allora…

spronateli ad “allenarsi” ogni giorno, a tenere duro, a impegnarsi, a non mollare, ad accettare un brutto voto come stimolo a fare meglio.

Solo così diventeranno dei “campioni”!

I figli non nascono razzisti: lo diventano. Ecco come evitarlo!

Sapete quanti ragazzini dicono “Io non sono razzista”, ma poi preferiscono non stare in banco con un compagno di colore? Quanti evitano di trascorrere l’intervallo con il compagno indiano e quanti non lo inviterebbero mai a casa loro per fare i compiti o giocare insieme?
Tantissimi! Direi la maggior parte.

Secondo voi qual è la motivazione?

Gli esseri umani non nascono razzisti, perciò dobbiamo davvero riflettere.

Se si tengono alla larga da chi non è “uguale” a loro… dobbiamo davvero farci delle domande.

Ascolto spesso da parte di genitori la frase: “Ah, ma io e mio marito non siamo mica razzisti! Non capisco come mai mio figlio non voglia stare in banco con il tal dei tali!” (che guarda caso è straniero).
Poi, durante momenti di dibattito in classe,

il ragazzino esce con frasi del tipo: “Ci rubano il lavoro”, “Sì, ce ne sono anche di buoni, ma la maggior parte sono delinquenti”, “Vengono qui e pretendono tutto”.

Lo so, sono le solite frasi fatte, ma… da qualche parte le avranno pur ascoltate.

Credo che oggi più che mai si debbano educare i figli a saper distinguere il bene dal male, il vero dal falso, l’onesto dal disonesto, il giusto dall’ingiusto, l’apparenza dalla verità.

Quando parlo ai ragazzi, amo sottolineare che

“veniamo tutti dallo stesso stampo: quello umano”

e li guido a immaginare che è come se qualcuno prendesse uno stampo (tipo la “formina per giocare con la sabbia”) e riproducesse tante figure per poi abbellirle, dipingendole di colori diversi, curando i dettagli in modo da avere “stampi originalissimi” (con colori di occhi e capelli diversi).

La diversità può davvero essere una ricchezza, perché accogliere senza paura chi è diverso da te è un modo per allenarsi ad avere una mente aperta, libera da pregiudizi e catene.

In un documentario legato all’Intercultura mi ha colpita una frase molto bella:

“Siamo tutti ospiti su questa Terra”

ed è profondamente vero.
Non possediamo la Terra: oggi viviamo in un posto e domani potrebbe capitare di vivere in un altro. E ai ragazzi d’oggi è possibile che succeda.
Dunque, cresciamoli “aperti” al mondo, facendo loro capire cosa c’è di buono.

E come possiamo fare?

  • Prendiamoci un lungo momento di riflessione con noi stessi, per analizzare ciò che finora abbiamo detto davanti ai figli: commenti, giudizi che sono “scappati fuori” di fronte a certe notizie dei TG.
  • Scegliamo (coinvolgendo anche il partner) che cosa dire davanti ai figli e che cosa censurare, perché frutto di uno sfogo, di una reazione a caldo, di una arrabbiatura.
  • Avviciniamo i figli a nuove culture, magari partendo con l’assaggiare sapori diversi (non solo quelli “di moda” come il sushi).
  • Cerchiamo letture che raccontino le storie vere di bambini che hanno rischiato la vita per salvarsela (ce ne sono tantissime). Leggiamo queste storie ad alta voce, insieme a loro e al resto della famiglia, commentando e riflettendo.
  • Guardiamo film che parlino di paesi lontani e di culture diverse. Film di storie vere a lieto fine, dove i giovani protagonisti superano ostacoli inimmaginabili per noi pur di poter studiare, di ricongiungersi alla loro famiglia, di vivere in un paese senza la guerra.

Iniziamo così: in modo semplice e a costo zero.
E in futuro, se le nostre finanze lo permetteranno, potremo anche fare un viaggio all’estero autogestito o mandare nostro figlio a fare un’esperienza formativa all’estero, anche se solo per una o due settimane. Qualcosa che lo avvicini a chi è diverso da lui.
Perciò… niente resort di lusso o college esclusivi…
Ma questo… chi vuole conoscere veramente il mondo, lo sa già.

Sei moderna o semplicemente volgare?

Oggi le nostre chiacchiere sono tutte al femminile.

Eh, già, perché ho notato che

molte femmine hanno confuso la “modernità” con la “volgarità”.

Vogliamo parlarne?

Ho giusto in mente alcune ragazze dagli undici anni in poi, vestite alla moda, carine, all’apparenza sicure di sé, che “maltrattano” i maschi con critiche feroci e con prese in giro che ferirebbero chiunque.

E gli adulti commentano: “Eh, sono le ragazze di oggi! Le ragazze moderne!”.
Beh, non sono d’accordo.

Essere “moderne” significa sì seguire le tendenze e i gusti del mondo presente, ma non c’entra col diventare volgari.

Non avete idea di come si comportino le ragazze volgari?

Be’, per esempio, si esprimono a parolacce, gridano, mangiano a bocca spalancata…
Ne ho viste alcune fare addirittura a gara di sputi!

Ok, ok, alcune di voi si saranno accorte che è una maschera, che queste “ragazzacce” non sono davvero come sembrano.

E avete ragione, perché le parolacce usate di continuo, in modo sfacciato, nascondono tutta la loro insicurezza nei rapporti con gli altri.

Vogliono farsi credere sicure di sé, mature… e invece appaiono tutt’altro.
Il fatto è che sono tanti gli elementi che poi fanno dire alle persone: “E’ una ragazza bella, ma volgare!”.

Pensate a quelle che si mettono le mani addosso come i maschi: che tirano coppini, fanno gli sgambetti e si spintonano.
Pensate a quelle sguaiate, che si siedono ovunque con le gambe divaricate e masticano la cicca a bocca aperta…

Sarebbe proprio sbagliato definirle “moderne”, perché

la modernità è sinonimo di originalità, ma in positivo.

Allora, se volete essere davvero “moderne”, cercate di comportarvi ed esprimervi in modo elegante, sensibile.

Non c’entra col vestirsi in modo classico e nemmeno con il modo di comportarsi che avevano le vostre nonne.

Essere volgari indica una mancanza di cultura, di finezza e di stile.

La vera originalità, quindi, sta nel riuscire ad essere “moderne” e al contempo fini, educate, capaci di buone maniere e di buone parole.

 

 

Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato sulla Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 30/01/2018.

Se vuoi bene a tuo figlio, non giustificarlo sempre.

Un ragazzo di vent’anni mi confida di aver assunto cocaina per “allontanarsi dai suoi problemi”:
il padre lo giustifica perché “è solo, non ha fratelli e io e sua madre abbiamo appena divorziato”.
Un adolescente rischia di perdere l’anno scolastico a causa delle assenze accumulate: i genitori si lamentano, ma lo giustificano, dicendo che “non si sentiva mai pronto all’interrogazione o alle verifiche”.
Un undicenne al parco alza le mani su un ragazzino che l’ha pesantemente insultato. Entrambe le madri giustificano i figli, l’una dicendo che è stata una reazione naturale, visto che è stato provocato, e l’altra minimizza la pesante offesa lanciata dal proprio figlio, perché “stava scherzando”.
Ad un corso di formazione, una donna si lamenta perché i due figli adulti non se ne vogliono andare di casa e se ne stanno a bighellonare tutto il giorno, ma quando la trainer le indica cosa fare per tagliare il cordone ombelicale, lei risponde: “Be’, ma come posso fare così… Come fanno a mantenersi? Non possono mica lavorare otto ore al giorno per guadagnare una miseria!”.

Di esempi del genere potrei farvene a centinaia…

Ma il succo di tutto è che molti ragazzi vengono sempre giustificati dai genitori e magari pure dai nonni e da certi insegnanti o allenatori.

Viene quindi spontaneo domandarsi:
“Ma giustificare sempre e comunque i figli, va bene?”.

Certamente no!

Anzi, è pure pericoloso per la loro crescita, perché non capiranno mai che cos’è un limite né impareranno che esistono dei confini. E che dire della morale e delle regole?

I figli hanno bisogno di avere dei “paletti” entro i quali muoversi serenamente.

Devono conoscere le conseguenze delle loro azioni e spetta agli adulti metterli di fronte a ciò.

Chi giustifica sempre un figlio… non gli vuole bene!

Sceglie il quieto vivere, ovvero una posizione di comodo, che regala un’apparente serenità in famiglia, ma non fa crescere nessuno.

I genitori hanno il dovere di responsabilizzare i figli e questo è possibile se spiegano loro che cosa fare e che cosa no.

Non si tratta di colpevolizzare i figli per come “sono”, ma per ciò che hanno fatto di sbagliato.

Non bisogna quindi dire: “Tu sei un disastro”, ma “Tu ti sei comportato male, per questo e quest’altro motivo”.
Diventa quindi necessario spiegare ai figli in che cosa hanno sbagliato e dimostrare loro che è possibile rimediare, ma soltanto dopo aver compreso i propri errori.

Sono i genitori al timone e tocca a loro definire i limiti.

Non possono farlo i figli, perché non sono adulti e hanno bisogno di essere guidati con mano sicura, giusta e ferma.

I genitori devono sì sforzarsi di “comprendere” perché un figlio si è comportato male, ma questo non vuol dire giustificarlo. Per essere autorevoli devono imparare a dire “no” ai figli, senza paure o dubbi.

Devono aiutare i figli a riflettere sugli errori commessi e sulle conseguenze di certe azioni e farlo con calma, senza gridare, né accusare.
I figli, d’altro canto, devono capire di aver sbagliato (non di essere sbagliati) ed essere pronti a non ripetere l’errore.

Ecco come avere dei figli “positivi”!

Quante volte ci stupiamo di fronte a certi atteggiamenti rinunciatari e timorosi dei nostri figli?

Vorremmo vederli sicuri di sé, grintosi, aperti a cogliere le piccole o grandi sfide della vita e invece li vediamo impauriti e spaventati all’idea di un insuccesso a tal punto da non provarci nemmeno.

“Tanto lo so, mamma, la verifica andrà male come la volta scorsa!”.
“A che serve tutto questo studio? Tanto poi va male!”.

Abbiamo ascoltato parecchie frasi simili a queste e magari l’istinto ci ha spinti a replicare:
“Ma io non so dove prendi tutta questa negatività!”.

Eh! Bella osservazione!

Ma cosa possiamo fare per avere figli “positivi”?

Intanto chiariamo che “positivi” non significa guardare alla realtà in modo distorto, con gli occhiali rosa, in modo irrealistico.

Positivi significa “ottimisti”, ovvero capaci di guardare il bicchiere mezzo pieno: fiduciosi nelle proprie capacità e sulla buona riuscita delle proprie azioni, oltre che di buona compagnia e socievoli.

Praticamente, figli capaci di pensare positivo, di vedere il lato buono della vita. Figli che guardano alla vita con il desiderio di vivere esperienze positive.

No, non stiamo parlando di extraterrestri!

Avere figli così è possibile! Ma molto dipende da noi.

Se siamo di quegli adulti che si alzano al mattino cupi e già si lamentano per la giornata che avranno davanti, con tutte le rogne di cui occuparsi al lavoro e tutti gli impegni a cui far fronte, be’ non saremo un gran bell’esempio! Non è questione di fingere, ma di non alimentare la negatività.

Lamentarsi è un’abitudine e, come tale, può essere modificata.
Se siamo genitori ottimisti, anche i nostri figli lo saranno!
Il primo “lavoro”, quindi, è quello su noi stessi.

Facciamo piccoli cambiamenti:

  • Al mattino evitiamo di lamentarci perché dobbiamo andare al lavoro.
    Se è possibile, facciamo colazione insieme a loro (magari alzandoci un pochino prima del solito) e parliamo di qualcosa di positivo (come, ad esempio, di chissà quali nuove cose interessanti impareranno a scuola).
  • Alla sera, a cena, possiamo dedicarci a “il racconto della giornata”, ovvero il racconto di ciò che abbiamo vissuto, con la regola di trovare “3 cose positive” da evidenziare.
  • Prima di dormire, possiamo leggere loro una bella storia a lieto fine.
    (Ci sono libri per bambine, ad esempio, che raccolgono storie di “femmine” che sono riuscite a realizzare i propri sogni, diventando scienziate, artiste, musiciste… Tutte storie positive, quindi).

Buone pratiche che fanno bene a loro, ma anche a noi!

Un’altra cosa importante, ma che comporta una certa attenzione da parte nostra, è legata al linguaggio e ai messaggi che invia al cervello.

Dobbiamo sforzarci di far caso alle frasi che i nostri figli sono soliti usare.

Se dicono spesso: “Non ce la faccio” (es. “Mi aiuti, mamma? Non ce la faccio”), “Ma io non sono capace!”, “Non ci riesco”, “Non sono bravo a calcio” o “In matematica sono negato!”, “In scienze non capisco niente!”, dobbiamo intervenire e modificare la loro frase in:

  • “Posso farcela!”
  • “Ci provo” o “Voglio provare a …”.
  • “Sono bravo in…”.

Questo li aiuterà a essere più positivi e a non generalizzare in negativo.

Se, ad esempio, dicono che il loro disegno fa schifo, facciamo notare loro che non è così: troviamo gli elementi positivi, senza ingannarli o illuderli. Ad esempio: “Del tuo disegno mi piace molto questo elemento” (troviamo un dettaglio che apprezziamo).

E per quanto riguarda noi, stiamo attenti alle parole che diciamo loro, soprattutto quando siamo irritati:

“Sbagli sempre!”, “Possibile che non ne fai una giusta?”, “Non cambi mai!” sono generalizzazioni che fanno danni.
Meglio essere più precisi e dire:
“In questa cosa hai sbagliato, ma puoi migliorare” oppure
– “Stavolta non è andata tanto bene, proviamo in un’altra maniera!”.

In questo modo, i bambini capiscono quello che non va bene, ma il nostro intervento è costruttivo, non distruttivo.

Quindi non si tratta di dire a nostro figlio delle falsità, ma di incoraggiarlo a “parlarsi” in modo diverso, perché i messaggi che manderà al suo cervello gli permetteranno di affrontare in modo positivo le difficoltà e gli ostacoli della vita.

Allora insegniamogli a farsi i complimenti per ciò che riesce a fare:
– “Sono stato bravo”,
– “Sono capace di…”,
– “Mi voglio bene”.

Deve rendersi conto di avere le capacità per fare di tutto, ma sapere che per farlo bisogna impegnarsi, concentrarsi e mirare all’obiettivo.

Aiutiamolo allora e stimoliamolo con queste frasi, soprattutto quando dubita di sé:

  • “Ho fiducia in te e nelle tue capacità”,
  • “ti voglio bene e ce la farai”,
  • “lo sai fare come gli altri, devi aver fiducia”
  • “la vita è fatta anche di insuccessi, quindi se questa volta è andata così la prossima volta andrà meglio”,
  • “si è capaci anche se qualche volta si sbaglia”.

Per riuscire a guardare alla vita con positività, nostro figlio deve imparare a dare il giusto peso agli eventi ed è tutta questione di “allenamento”.

Guardare alla realtà senza negativizzare tutto richiede continuità: va fatto tutti i giorni.
Magari iniziando dal buon umore, che trasmette serenità, speranza e allenta le tensioni.

Cerchiamo dunque di “sorridere” più spesso: i nostri figli (e non solo) ne godranno tutti i benefici.

Non illudiamoci però: i nostri figli non diventeranno positivi “per magia” e da un giorno con l’altro!

Dobbiamo educarli noi a questo atteggiamento: noi, che siamo le persone più influenti nella loro vita.

E a chi si lamenta, dicendo: “Anche questo devo imparare?!?”, rispondo che fare il genitore è un duro lavoro da svolgere tutti i giorni e, come tutti i lavori, prevede un continuo apprendimento se si desidera migliorare.

Il potere che ne deriva è enorme: influenzare l’intero futuro dei propri figli.

 

 

 

Ragazzi, allenatevi al… rispetto!

Sapete che cos’è il “coaching”?

E’ un metodo per ragazzi e adulti  che vogliono migliorare se stessi, superando ostacoli e sviluppando tutti i loro punti di forza.
Il termine significa “allenamento” e infatti, per raggiungere un obiettivo, dobbiamo allenarci, esattamente come si fa nello sport.

Può essere un obiettivo sportivo, professionale, scolastico o… personale, come nel caso di migliorare il nostro rapporto con gli altri.

E come fare?

Il discorso è lungo, ma partiamo da un concetto semplice:

per stare bene con le altre persone dobbiamo cominciare a pensare a loro in un’ottica di “rispetto”, a partire da piccoli gesti legati alla nostra quotidianità.

Facciamo un esempio:
se viviamo in appartamento e ci sono persone che abitano sotto di noi, eviteremo di ascoltare la musica o la tv a tutto volume, così come di giocare a far rimbalzare la pallina da tennis sul pavimento.
Il motivo è ovvio: daremmo fastidio e quindi potrebbero risentirsi e noi rischiare di incrinare il rapporto con loro.

Non è difficile, basta allenare la nostra sensibilità verso gli altri e cominciare a pensare seriamente che i loro diritti (al riposo, alla tranquillità ecc.) sono uguali ai nostri.

Potremmo iniziare col domandarci: “Ma se loro disturbassero me come io faccio con loro, come reagirei?”.

Immaginate di essere sui libri in vista di una verifica importante e di non riuscire a concentrarvi per il fastidio provocato dai vostri vicini.
Correreste il rischio di prendere un brutto voto, vero? Che seccatura!

Quindi, “alleniamoci” a essere più rispettosi, così:

1) scriviamo una lista di azioni che – se fossimo noi a subire – ci darebbero molto fastidio.

2) Prendiamo la prima voce in elenco (es. tenere il volume della musica basso, ovvero – in una scala da 0 a 10 – potrebbe essere a 3) e stabiliamo che per un mese ci concentreremo su questo.

3) Il mese successivo “rispetteremo” il 2° punto della lista e così via.

Alla fine in qualcosa avremo migliorato e gli altri ce ne saranno grati.

*Articolo scritto da Laura Gazzola e pubblicato nella Pagina dei Ragazzi del quotidiano “La Provincia di Como” il 20 novembre 2018.

Come faccio a gestire l’aggressività di mio figlio?

Hai un figlio aggressivo? E’ adolescente?

Ti senti impotente di fronte a lui e provi paura, preoccupazione, persino rabbia?

Sai già che “essere arrabbiati” è tipico dell’adolescenza, ma forse non sai ancora che

è un modo inconscio che tuo figlio ha per separarsi e differenziarsi da te.

Significa che devi sopportare e giustificare tutti i suoi attacchi? No di certo.

Tuttavia è importante che tu ti chieda: “Ma che cosa mi sta comunicando la sua aggressività?”.

E soprattutto è necessario che tu abbia ben chiaro come comportarti.

Ecco alcune dritte che possono esserti utili:

1) Non litigare con tuo figlio, perché non aspetta altro che un’occasione per scontrarsi con te:

osservalo, ascoltalo per capire qual è la vera causa della sua rabbia (magari nasce dal fatto che tu continui ad elogiare il fratello perché è bravo a scuola o nello sport)

2) Dagli il buon esempio,
cioè dimostragli di saper discutere senza alzare la voce né ferirlo;

3) Non provocarlo, ovvero non innescare altra aggressività, ma contienilo:

se tuo figlio è arrabbiato, rimanda qualsiasi confronto o discussione a quando sarete entrambi più calmi.

4) Valuta bene quali “no” dirgli, perché se sono troppi e continui, sono dannosi e alimentano gli scontri. Meglio poche regole, definite bene e facilmente comprensibili per lui.

5) Dimostragli di apprezzare i suoi comportamenti positivi, anche se si tratta di piccole cose (come rimettere in ordine la sua stanza).

6) Non essere permaloso quando tuo figlio critica tutto ciò che fai:

lo sta facendo apposta per provocarti, ma inconsciamente sta cercando di separarsi da te, per non essere più il bimbo che ha bisogno del genitore.
Perciò… non fare il suo gioco, vai oltre: cerca di capire che cosa sta succedendo.

Affiancare nella crescita un figlio adolescente è difficile, ma adottare alcune buone pratiche può renderlo meno pesante.

Aspetto le tue riflessioni e… il tuo LIKE. J

Volete aiutare un figlio in crisi? Affidatevi ad un bravo professionista.

In questo periodo sto prestando particolare attenzione alle frasi che ascolto a proposito di “chiedere aiuto a professionisti” che lavorano in ambito psicologico, educativo e formativo, come psicologi, pedagogisti, Life e Teen Coach, Counselor.

Vi riporto alcune affermazioni che ho ascoltato di recente:
“Questi ragazzi! Altro che andare dallo psicologo! Mandali a lavorare! E poi vedi che gli passa tutto!” (un commercialista);
“Sono una brava madre e mio figlio non ha niente che non va… E’ solo che la scuola non gli piace!” (la madre di un adolescente);
“Se mia figlia è in crisi, la aiuto io ad uscirne! Le parlo, le sto vicina e tutto si supera!” (la madre di una quattordicenne).

Forse un fondo di verità c’è in tutte queste esclamazioni, ma… siamo proprio così sicuri di saper intervenire bene su tutto?

Io parto sempre da un principio di umiltà: se il problema che mi trovo di fronte non rientra nelle mie competenze professionali, mi affido agli addetti ai lavori.

Non mi sento “incapace” se non riesco a trovare le soluzioni a tutti i problemi che possono affliggere i miei familiari in alcuni momenti dalla vita…
Certo!, vorrei avere la bacchetta magica per vederli sempre felici, ma non è possibile e quindi mi affido a “chi ha studiato per risolvere quel problema”.

Non so come mai ci sia ancora tutta questa reticenza nel chiedere aiuto a figure che si occupano di “farci stare bene” a livello psicologico.

E come mai siamo subito pronti a consigliare e passare il nominativo e l’indirizzo di un bravo ginecologo (?!), mentre tacciamo quello di un Life Coach, di uno psicologo, di un pedagogista.

Dov’è il problema?

Io credo risieda nella nostra paura di essere etichettati e di apparire fragili, inadeguati, diversi.
Oppure nel desiderio di tenere “segreta” quella marcia in più conquistata grazie al sostegno di quel tipo di professionista.

Curioso, vero?
Mi viene in mente anche un altro esempio: se mio figlio ha un pessimo rendimento scolastico, non mi faccio problemi a dire che lo mando a ripetizioni da più professori. Anzi!, agli occhi degli altri sento di essere un genitore attento e presente, che ha a cuore il futuro del figlio.
Ma se mio figlio dovesse andare da un teen coach per apprendere tecniche e strategie utili alla sua vita (e quindi anche alla scuola)… beh, questo è meglio non farlo sapere.

E perché mai?

Come ho detto chiaramente durante l’intervista fatta a Radio Lombardia (e visibile nel mio sito), i genitori “illuminati” – come li chiamo io – sono quelli che capiscono subito di non avere gli strumenti per aiutare un figlio ad uscire da un periodo di crisi ed è per questo che si rivolgono ad un professionista. Amano così tanto il figlio da non voler perdere tempo. Mettono da parte l’orgoglio e usano l’intelligenza.

Eh, sì, perché quando un figlio studia, si impegna, ma durante le verifiche va in crisi e non capisce più niente… si risolve ben poco con la comprensione, i discorsi incoraggianti e gli abbracci consolatori (anche se fanno sempre piacere!).

Perciò non sentitevi a disagio nel riconoscere che avete bisogno di un appoggio: anche vostro figlio ne ha bisogno.
Cercate il professionista più adatto a risolvere il problema di vostro figlio e ricordate: nessun professionista potrà mai sostituirsi a voi genitori.
Semmai vi affiancherà e vi chiederà collaborazione perché vostro figlio possa tornare ad essere sereno e a guardare al futuro con fiducia e motivazione.